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Care lettrici - Cari lettori

Sei in Valle è un contenitore culturale, un trimestrale che lancia con questa periodicità dei temi stimolanti, intriganti. Li lancia come una sfida per i nostri collaboratori che scrivono nella propria rubrica dedicata e per chi ci legge, mosso da una sana curiosità. A voi la scelta! Leggere partendo da un tema o farlo consultando la rubrica che più vi interessa.

«Il condominio» di Stanley Elkin

Un perfetto esempio di narrazione a spirale

di Luca Conca

elkin typewriter

Il condominio è un romanzo scritto nel 1973 da Stanley Elkin, un autore poco conosciuto in Italia, ma che va invece accostato agli scrittori più significativi e personali della letteratura americana contemporanea.

Due volte vincitore del National Book Critics Circle Awards e finalista al National Book Award e al PEN/Faulkner Award, figura seminale per molti autori venuti dopo, sia per lo stile articolato, ricco di cambiamenti di registro e improvvise aperture liriche, sia per la scelta dei temi, spesso bizzarri e stravaganti. Eppure, come disse lo stesso Elkin in un’intervista: «Probabilmente conosco tutti i miei lettori per nome».

Quindi poco letto e poco tradotto. Ma in Italia ci sta pensando la Minimum Fax, nella collana Minimum classic, per fortuna. In questa breve recensione (o meglio passaparola, consiglio letterario) non partirò dalla trama, perché mi preme innanzitutto chiarire l’associazione che mi ha portato a scegliere quest’opera pensando al tema la paura.
Il libro si apre con quella che può sembrare una delirante, immaginifica, narrazione antropologica sui luoghi dell’abitare, una sorta di ascesa e declino degli spazi abitativi: prima privati poi comuni, prima residenziali poi metropolitani, fino al comparire all’orizzonte di quello che è ancora oggi il caposaldo della società contemporanea nelle grandi città: il condominio. Dal latino condominium, proprietà condivisa.

«Quello che la gente voleva era il più elementare spazio abitativo: bagno grande e bagno di servizio, due camere da letto, un cucinino, un soggiorno utilizzabile anche come sala da pranzo dove poter stipare quarant’anni di mobilio. E sì, e già, e magari anche una veranda dove piazzare la tv a colori e senz’altro un terrazzo dove mettere le piante. Ma quello che contava era lo spazio, l’appartamento in sé. Un posto dove vivere, dove stare!»

Dove sta invece finora la paura, dove voglio andare a parare?
L’uomo è un animale sociale, ecco una delle più abusate definizioni antropologico-sociali. Nelle pagine introduttive del romanzo, l’autore sembra insinuare subito un dubbio, un pericolo, una minaccia: scegliendo la vita sociale, la collettività e la condivisione di un luogo in cui vivere, l’uomo non è più al sicuro. Il condominio, lungi dall’essere un riparo, la soluzione sicura ai rischi della grande città, è un’entità misteriosa e fagocitante: luogo dell’abitare ma anche topos narrativo, scenario e immaginario di tutta una serie di possibilità che l’autore sceglie per destabilizzare e spostare lentissimamente l’equilibrio degli eventi del romanzo, fino a farli inesorabilmente precipitare.
Il condominio non è certo un horror ma è attraversato fino alla tragica fine da un’inquietudine, una paura misteriosa che non possiamo non associare a questo grande edificio, formato da tre torri, di quasi venti piani.

condominio«Ora gli edifici erano tutti finiti: ce n’era uno centrale di undici piani e due più alti ai lati. La facciata era di mattoni chiari congiunti a incastro – da lontano sembravano pagine dalle quali fosse stato cancellato ogni messaggio – edifici privi di fronzoli con un aspetto severo che li faceva assomigliare a università russe.»

Marshall Preminger, trentasette anni, con problemi di cuore, il protagonista di questa storia, eredita dopo la morte improvvisa del padre, un appartamento in un grande condominio nel North Side a Chicago. 

Sull’immobile però, si legge nella descrizione in quarta di copertina, grava un debito di svariate migliaia di dollari, relativo a «spese condominiali» mai pagate: piscina, aria condizionata e altri extra di lusso.

Una volta insediatosi in quello che era l’appartamento del padre, fin dal primo giorno Marshall si rende conto della struttura perfetta, rigida e autarchica dell’edificio: comitati di condomini, amministratori, sorveglianti, consigli direttivi e amministrativi. Ogni aspetto della convivenza tra proprietari e inquilini è regolato da leggi ferree e assurde allo stesso tempo. C’è un’atmosfera repressiva perfino negli ambienti comuni e ludici come la piscina esterna. I divieti e le indicazioni limitano anche la più innocua delle iniziative individuali. Il gruppo e l’integrazione sono le uniche vie contemplate. Quella che all’inizio il protagonista scambia per efficienza e sicurezza è in realtà una macchina cieca e insensata di controllo e repressione.

Stanley Elkin prepara lentamente il lettore a questo senso impotente di straniamento ma non rinuncia ad una componente di comicità, che lascia però una sensazione amara e sospettosa che somiglia al timore del protagonista, via via che i giorni passano e la stretta che inizia a limitarne la libertà, anche nelle abitudini quotidiane più innocue, si fa più soffocante.
La bravura di Elkin e la cifra particolarissima del suo stile stanno nel presentare personaggi e situazioni con una dose iniziale di surrealtà; una vicina di casa impacciata e un po’ impicciona che improvvisamente diventa ossessiva; una serie di braccialetti colorati dati in dotazione ad ogni condomino per districarsi fra le gerarchie di permessi e visite degli ospiti esterni; amministratori zelanti e premurosi che hanno così a cuore il bene comune da sacrificare i singoli per la collettività.

Solo alla fine ci rendiamo conto che l’esperienza paradossale di Marshall ha qualcosa di sempre più violento e stringente. Non si tratta di un grande malinteso, non è solo uno sciocco fraintendimento e non potrà sciogliersi da un momento all’altro in una sonora risata liberatoria. Vengono in mente almeno altri due precedenti letterari, di quello che a buona ragione può essere considerato un genere : L’inquilino del terzo piano, scritto da Rolan Topor nel 1964 e Rosemary’s baby, di Ira Levin, del 1967.

el condominio

In questi due lavori però la paura, l’angoscia hanno un loro chiaro stampo noir, horror direi quasi, soprattutto per il secondo, nel quale una giovane coppia si trasferisce nell’appartamento di un grande e tetro palazzo nel cuore di Manhattan e si rende ben presto conto che i simpatici e attempati vicini di casa sono adoratori di satana. Ma decisamente le somiglianze più numerose sono con L’inquilino del terzo piano, un perfetto esempio di narrazione a spirale in cui un ingenuo scapolo subentrato come affittuario in un appartamento di un grande edificio a Parigi, si trova pian piano coinvolto in una tremenda macchinazione ordita dai vicini. Realtà e suggestione, in entrambi i casi, segnano la narrazione e alternano le diverse chiavi di lettura.

Ne Il condominio invece, il taglio è decisamente più sottile, la prosa luminosa e ricchissima, l’indagine che in qualche misura sta dietro allo spunto letterario è sociologica e filosofica. Marshall vuole integrarsi, uniformarsi, convivere civilmente con i suoi vicini, lui che cerca solo una vita pacifica e riservata, ma vede in questa integrazione solo un’assurda autarchia, intransigente e coercitiva ; qui non è la psicosi collettiva o la follia dei singoli la vera minaccia, ma le placide e semplici regole condominiali, consuetudini che si trasformano velocemente in prigionia. Marshall non teme per la sua incolumità fisica, ma teme per la sua identità, capacità e libertà di scelta.
Vuole ribellarsi all’illogico, ma la sua mente lucida ne uscirà tragicamente provata.

foto in alto: www.vol1brooklyn.com

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