- Categorie: sei in Filosofia Le parole
Tra IA e poesia
Cura e potere - distruttivo e creativo - della parola
«Con la parola mi sento altrista, basta artista. Altra arte, arte degli altri, con gli arti, per gli altri, altrimenti. Ecco la parola crealtà: io non voglio dimenticare la realtà ma filosoficamente voglio crearne un’altra, la crealtà, che non esclude la prima ma inventa la seconda».
Alessandro Bergonzoni
«Certe parole sembrano possedere un potere magico formidabile. Migliaia di uomini si son fatti uccidere per parole di cui non hanno mai compreso il significato, e spesso anche per parole che non hanno nessun significato».
Gustave Le Bon
«Odore di ascella»
Forse non pare un inizio straordinario, ma è così che Paolo Borzacchiello, che si occupa da vent’anni di intelligenza linguistica, ossia dell’effetto che le parole hanno sul nostro cervello a livello fisico/fisiologico, apre uno dei suoi interventi in cui si propone di insistere su quello che le parole possono fare della nostra realtà, su come ci fanno stare. Citando una ricerca del 2005 che lo ha particolarmente «scaldato, affascinato e inquietato al tempo stesso», ci fa infatti notare come la stessa cosa (nel caso specifico del suddetto esperimento, una sostanza trasparente) presentata con parole diverse, da un lato sconvolge le persone e gli fa provare sensazioni spiacevoli (quando viene detto che si tratta di puzza di ascella), dall’altro le eccita (quando viene invece detto che si tratta di un particolare profumo di un formaggio francese prezioso, invecchiato tantissimi anni).
Diverse le parole, diverse le reazioni, anche se entrambe del tutto prevedibili. Ogni parola che pensate, concepite, immaginate, produce l’accensione nel cervello di diverse aree, che a loro volta producono reazioni chimiche ormonali come quelle che avete sentito prima quando avete letto «odore di ascella»: l’avete sentito, era fisico, erano ormoni, e quelli diventano la vostra realtà.
Stele con scritte in greco antico
La realtà che voi vivete ogni giorno è il risultato delle parole che usate per raccontarla. La parola non descrive solo le cose che già esistono ma genera, rivela e fa esistere le cose. Pensate al mito della creazione, «Dio disse e così fu», o ad Abracadabra che deriva dall’aramaico e significa «io creo cose come parlo». Noi siamo la storia che ci raccontiamo, siamo storie che camminano. Questa è la cura delle parole per Borzacchiello: «Prendetevi cura delle vostre parole e le vostre parole si prenderanno cura di voi».
Della parola dobbiamo avere una grande cura anche perché questa appartiene all'essenza dell'uomo. I greci avevano definito l'uomo come 'zoòn lògon èchon' (ζῷον λόγον ἔχον), come l'animale che ha la parola, il linguaggio. Quando i latini avevano solo 4'000 vocaboli i greci ne avevano 80'000, e proprio grazie a questi hanno inventato la filosofia, l'architettura, la matematica ecc.
Freud dice che la parola ha un forte potere liberatorio, alleggerisce e guarisce. Dove c'è parola, insomma, c'è salvezza. Una delle sue prime pazienti definì l'esperienza della psicoanalisi come una Talking Cure, cioè una cura attraverso la parola, una cura parlata. Ad esempio, insonnia e depressione sono 'discorsi senza parole': il lavoro dell'analista consiste fondamentalmente nel dar loro parola, nel tradurre in parole quel dolore, quella sofferenza.
Le parole hanno un peso. Possono conficcarsi in te, segnarti. Basti pensare che essere bambini, cosa significa se non essere parlati dall’altro? Siamo parlati prima che parlanti (pensa al nome, innanzitutto: tuo proprio, ma detto sempre e solo dagli altri). Le parole hanno quindi un peso, persino quando sono vuote, quando diventano pura retorica, quando vengono usate in frasi fatte ripetute senza un senso. Basti pensare a come Mussolini e Hitler sono riusciti a trascinare le folle attraverso queste, attraverso il loro potere. Si badi bene: le folle, non il singolo uomo che sa pensare. Al proposito trovo illuminante Gustave Le Bon in Psicologia delle folle, da cui è tratta la citazione posta in esergo, e le riflessioni di Paul Valery quando disse che il potere è il possesso delle condizioni che sottomettono l'azione di una persona (o di alcune persone, o addirittura di tutti) alla parola di qualcun altro. Di conseguenza essere al potere significa poter parlare in cattedra, da maestro, disporre del discorso e della parola che sarà obbedita.
Èric Sadin, scrittore e filosofo contemporaneo, ci fa notare come il potere della parola, legato alla nostra libertà e al nostro modo di essere in relazione con gli altri, sia sempre più neutralizzato dal crescente sviluppo e dalla sempre maggiore diffusione delle tecnologie digitali. Oggi, dopo una prima fase di pressione sulla decisione umana da parte di sistemi tecnico-economici, si può infatti parlare di una seconda fase dell’intelligenza artificiale da lui definita 'generativa'.
Stiamo vivendo una vera e propria svolta, un capovolgimento: le tecnologie ci suggeriscono le cose più appropriate, ci consigliano ed incitano ad agire in un certo modo anziché in un altro. Abbiamo ormai interfacce che ci dicono la verità, che si mettono a parlare (anche al nostro posto) perché vogliono capirci e consigliarci sulla base dei dati che hanno raccolto. Ovviamente il tutto è fatto in vista del nostro benessere o comfort, di ciò che è il meglio per noi. Oppure, più precisamente, il tutto è in vista di ciò che suppongono essere il meglio per noi.
Il problema è che finiamo col credere che quello sia davvero il meglio. Non ci interroghiamo più, ricerchiamo solo la conformità perfetta con quello che i sistemi di volta in volta ci propongono e viene meno il nostro lavoro personale, il nostro potere di decisione nella pluralità e nella contraddizione. In ultima analisi, viene meno ciò che di vivente c’è in noi! Da esseri umani siamo ridotti ad essere robot, solo fatti di carne e di sangue (quantomeno per ora).
La suddetta intelligenza artificiale generativa che 'parla', in realtà produce uno pseudo linguaggio, una lingua morta, perché la sua fonte principale è data da corpus passati, assemblati in modo schematico, algoritmico, sulla base di equazioni probabilistiche. Si arriva ad ottenere così una successione di parole che non ha niente a che vedere con il vero linguaggio legato al presente che è potenza di vita, di inventiva e presuppone apprendimento e gioco. Questo è, a mio avviso, sconvolgente, anche se è stato accettato ad una velocità fenomenale da tutti dato che è bello e facile, dato che risponde con immediatezza ai nostri capricci. Senza rendercene conto ci stiamo allineando, stiamo sradicando la cultura propriamente umana e dell’alterità. Stiamo iniziando a rinunciare all’espressione delle nostre facoltà, della nostra creatività, del genio che è in noi! Stiamo andando a perdere, poco a poco, la nostra libertà, la nostra diversità, la nostra unicità, noi stessi.
«E dove sta la vita se non in questo?»
È un momento davvero di urgenza. Forse dovremmo spostare il focus sul rispetto dell'integrità e della dignità umana, della libertà e della pluralità. Forse dovremmo celebrare ciò che di vivente c’è in noi, la nostra parte creativa, poetica potremmo dire: Heidegger sosteneva che la filosofia, al suo compimento, non poteva far altro se non sfociare nella poesia! Ciò credo corrisponda alla celebrazione del Genius logos di cui parla Alessandro Bergonzoni, artista che gioca con le parole in maniera davvero esemplificativa e pregnante.
Chiudo citandolo, perché ritengo il suo dire davvero molto incisivo e pertinente: «Voglio creare una parola chiave, passepartout, che fa così congiungivite. Di solito parliamo di congiuntivite, la malattia che colpisce l’occhio, lo fa lacrimare… la congiungivite invece unisce tutte le vite e ti fa vedere di più, ti dà la visione, collega ogni persona, ogni vita, unisce… ed è contagiosissima se si comincia a congiungere la vita, con gli spaesati».