Benessere e disagio

Sono percezioni antropologicamente determinate?

di Michela Zucca

malinconia

"Non avevamo niente, eppure eravamo sempre contenti": queste le parole ripetute talmente tante volte dai nostri vecchi, da farci venire qualche domanda. Insomma:questi cominciavano a lavorare appena in grado di stare fermi sulle gambe. 

A sei anni portavano al pascolo le mucche e, se scoppiava un temporale, dovevano fermarsi a pernottare sotto un sasso per non rischiare di far colpire le bestie dal fulmine: arrivati a casa, gli chiedevano come stavano le vacche, non se avevano avuto paura dei tuoni.
Da mangiare sempre la stessa roba, più o meno: buona e sana certo, ma non cambiava mai. Lavorare come disgraziati, sempre, sabato e domenica, Pasqua, Natale e Capodanno inclusi, perché si munge ogni giorno. Due volte al giorno. Vestiti, due: uno per tutti i giorni, l'altro per la festa. Quando quello bello – dopo anni - veniva passato di grado, se ne recuperava un altro, di solito "passato" da qualche "signore" da cui si era stati a servizio. Sposarsi la mattina presto, caffelatte e poi subito nei campi. Tanti figli, uno dopo l'altro, vecchiaia precocissima, acciacchi, malattia e morte. "Eppure eravamo sempre contenti".

Cime nere-Luca-ConcaCime nere - olio su tela di Luca Conca

Il benessere del corpo e dell'anima

Il benessere del corpo dipende dall'ambiente fisico che lo circonda: quello che respira, quello che mangia, le sostanze con cui viene in contatto, e via dicendo. Ma anche dal contesto sociale in cui si trova ad esistere: presso gran parte delle società della tradizione, esiste una sola parola per significare, indissolubilmente, la buona salute individuale e la pace della comunità, ed è l'armonia con gli altri. È chiaro che la malattia possa dipendere dal contesto in cui il malato è inserito, o di una situazione che suo malgrado deve subire.
La malinconia, per esempio, nelle comunità alpine era ritenuta un male pericolosissimo e contagioso, che poteva portare alla morte, ed esisteva, in ogni dialetto, un termine specifico per indicarla, o addirittura più parole, che ne specificavano l'origine: mal d'amore, nostalgia della famiglia, e perfino... lontananza dalle proprie montagne, dal paesaggio natale. Anche i medici militari consideravano la malinconia un malanno da prendere tremendamente sul serio, infettivo. Avevano notato che non era diffusa in ugual maniera fra i battaglioni: ne soffrivano specialmente i soldati che venivano dalle isole o dalle montagne. Fra quei reparti, poteva diventare la prima causa di decesso. Il rimedio che trovarono i dottori del '700 fu la costituzione di brigate a reclutamento regionale: stando assieme, fra gente della stessa razza, avevano meno problemi.
Ciò che colpisce in gran parte delle comunità "primitive" o "della tradizione" (fra cui si può includere anche la gente delle comunità alpine delle nostre valli) è la felicità e la salute cerebrale dei suoi componenti: si può dire che l'igiene mentale delle società arcaiche permette di dare all'individuo un maggiore equilibrio rispetto alla nostra. Certo, si può obiettare che serenità e volti sorridenti nascondono ineguaglianze e miserie, malattie croniche, fame e discriminazioni, ma non si può nascondere che in Occidente, al contrario, l'impressione predominante è ansia, stress e depressione. Un rimprovero comune dei vecchi contadini a figli è nipoti riguarda la loro eterna tristezza: "Voi, che avete tutto, avete sempre il muso".
Nel corso della sua evoluzione durata almeno due milioni di anni, gli esseri umani hanno sviluppato dei sistemi di relazione che li fanno sentire più o meno bene. Ricordiamo che l'Homo sapiens sapiens, cioè noi, ha centomila anni: da centomila anni ad oggi, di progressi ne ha fatti ben pochi. Certo, dalla scoperta del fuoco siamo arrivati sulla luna: ma la nostra mente è ancora "tarata" su comunità di massimo 100-150 persone, fortemente solidali fra loro e in continuo contatto visivo e corporeo. Vivere in ambiti più estesi, e soprattutto, alienati, in cui le persone non si conoscono e sono indifferenti le une alle altre, ci causa un disagio esistenziale profondo.
Anche in provincia di Sondrio, da diversi decenni (ma il movimento si è sempre più accelerato negli ultimi anni) la gente si sta concentrando in contesti metropolitani di fondovalle, che hanno acquisito tutti gli svantaggi delle zone densamente urbanizzate senza ottenerne i vantaggi: traffico, aree di insediamento periferiche marginalizzate, inquinamento, perdita di identità. Con una peculiarità: rispetto alle città di pianura, dove il centro è più o meno equidistante dalle periferie, perché l'espansione è avvenuta a "macchia d'olio", le zone metropolitane alpine sono cresciute nei fondovalle stretti, e quindi hanno acquistato una caratteristica urbanistica molto allungata inglobando via via i comuni rurali che si trovavano lungo i principali assi di transito.
Così, alcuni quartieri si trovano decisamente lontani dall'unico centro storico "cittadino", in cui si concentra la vita culturale e civile, sia geograficamente che socialmente, e sono diventati veri e propri "dormitori", in cui, fra l'altro, esistono conflitti latenti fra gli antichi abitanti originari "di lì", e quelli "venuti da fuori", che dai locali sono tenuti lontani dai processi decisionali e quindi diventano ancora più estraniati dal contesto di residenza.
Nelle grandi concentrazioni metropolitane odierne, ma anche in molti centri urbani minori, come quelli che sono cresciuti a dismisura nei nostri fondovalle, si concentrano le contraddizioni e le sofferenze del vivere contemporaneo: opulenza e miseria, sociale e culturale; affollamento e solitudine, industrializzazione e inquinamento, competizione ed emarginazione, precariato lavorativo ma anche esistenziale, disoccupazione e stress, ansia e paure di ogni tipo. Si crede di soffrire di malattie: in realtà, si diventa vittime di surmenage, superlavoro, sindromi da fatica cronica, depressione, terrore di aggressioni più temute che subite. Basti pensare che negli ultimi anni, nel nord Italia, la percentuale di reati minori è di molto diminuita: ma una delle preoccupazioni più sentite dai cittadini riguarda la sicurezza, percepita come sempre più a rischio. Si tratta di fenomeni di autosuggestione, di "effetti psicosomatici" di origine culturale, che si trasformano in elementi causali morbigeni, fattori di insalubrità, in gran parte sconosciuti nei secoli precedenti, responsabili di situazioni morbose nuove che diventano incidenti, disadattamenti, disabilità, conflittualità, alienazione, disgregazione sociale, rifiuto di assumersi responsabilità, tossicodipendenze. In ugual misura, possono manifestarsi come patologie organiche, tumori che divorano biologicamente il fisico.

conca-Le-scioreLe sciore - olio su tela di Luca Conca

Nei paesi piccoli, nessuno si sente solo

Generalmente, le malattie psichiche sono dovute ad un gap che si crea tra la persona e il suo gruppo di riferimento. Il malato soffre nello spirito e nel corpo in seguito ad esperienze traumatiche, choc che lo hanno ferito, in un momento della sua vita, e non riesce più a fare lo sforzo di adattarsi a ciò che lo circonda. La sua alienazione precede l'essere malato, è legata al fatto di essere posto dagli altri in una posizione falsa, e di non riuscire a proporre per se stesso un ruolo diverso. Allora, si creano un linguaggio e dei comportamenti speciali, strani (le conversazioni schizofreniche, per esempio); un simbolismo particolare, che si discosta da quello pubblico e accettato. Le nevrosi diventano più frequenti nel momento in cui sono duramente sanzionate dall'establishment: con la detenzione, l'internamento, l'esclusione sociale. La guarigione si ottiene se il gruppo riesce a modificarsi in rapporto all'individuo: cosa che di solito in contesti come il nostro non succede, perché si pretende che sia proprio chi sente il malessere a cambiare, per non dare più disturbo agli altri, e non viceversa: altrimenti, viene eliminato con vari metodi. Dalla lobotomia al trattamento sanitario obbligatorio; dalla galera all'ospedale psichiatrico; dagli psicofarmaci all'esclusione dal consesso civile.
Le culture della tradizione, però, sono più coese di quelle individualiste moderne. Là dove la persona si confonde nella collettività familiare, clanica, etnica, i disturbi psicologici sono inglobati e redigeriti in un contesto religioso che sa dare una soluzione, risolti all'interno di un gruppo solidale, che dedica del tempo al rapporto umano col paziente, che non nega mai la sua presenza. Nelle tribù, nei paesi piccoli, nessuno si sente solo.

 

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