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Il sonno del pensiero cherubico genera spettri e mostri
Da Cnosso a Patmos passando da Qumram
di Egidio Missarelli
Cerbero (Divina Commedia, Inferno, VI Canto, 1-33)
«Chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te».
Friedrich Nietzsche
L’enochico in me trasuda veracità al cospetto di una miriade immaginifica e immaginale teriomorfica che il tempo ha sommerso nelle sue spire o sabbie mobili. Ma resta il fatto che il vero ribolle comunque nelle profondità dell’uomo e del mondo, anche se le versioni moderne poco accorte, seppur oneste, non possono afferrarne l’essenziale e vivente realtà implicante «d’entrare nelle lingue di fuoco al centro dei cherubini fiammanti[1]». Qui la realtà viene restituita da Proclo nel suo commento al Timeo: «Infatti, come la terra abbraccia tutti gli elementi in maniera ctonia, così il Cielo li abbraccia tutti in modo igneo». Freud, ma soprattutto Jung e Lacan sono indispensabili, ma il pellegrino cherubico ed eracliteo non può che ritenerli gravemente insufficienti. Come pure sfugge ai dotti il contrappasso nei danteschi versi, dal cataro sapore: «Cerbero, fiera crudele e diversa, / con tre gole caninamente l’altra / sovra la gente che quivi è sommersa. / Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra, / e 'l ventre largo, e unghiate le mani; / graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra. / Urlar li fa la pioggia come cani; / de l'un de' lati fanno a l'altro schermo; / volgonsi spesso i miseri profani. / Quando ci scorse Cerbero, il gran vero, / le bocche aperse e mostrocci le sanne; / non avea membro che tenesse fermo».
Suicidio, Edouard Manet (foto: arterivista.it)
Attenzione però: una prima soglia ha un guardiano che i più li esclude dal firmamento igneo. Non per cattiveria, ma per giustizia. Phanuel è la vera versione di noi stessi, come siamo e non come ci dipingiamo: terrore, orrore, rischio ed enigma sono le parole adeguate alla circostanza dell’incontro. Tracce in letteratura ve ne sono in abbondanza, ad esempio Glyndon di Bulwer-Lytton, Jekyll di Stevenson, Dorian Gray di Wilde. Ma vanno capite come transizione dalla personalità singola in orrore cosmico, altrimenti restano immagini vuote e sterili, solo letterarie, in salsa razionalistica quindi false. Una frantumazione non sempre avvia processi che debbano forzatamente risolversi in patologia, anzi mai in una postura agapica e kadmonica ciò avviene, ma bisognerebbe saper leggere: «Poi vidi, ed ecco una porta aperta in cielo… e la voce… che diceva: ‘Sali quassù…’[2]». Il tutto va inscritto nella percezione pura del tempo, uno spazio cioè di materia edenica, estatica, volitiva, come Tarkovskij suggerisce nel suo film «Lo specchio», solo lo si guardi, come scrive in «Scolpire il tempo», non da spettatori ma da testimoni. In altri termini, il vero concetto apocalittico della storia non è altro che «la decadenza da (un) pensare cherubico a uno spettrale», e ciò serve a recuperare la Verità là dove è: fuori dalla «ferocia di cervelli in decadenza, patologia che inventa rimedi cerebrali sempre peggiori dei mali[3]».
Il post-umano, nella «Lettera a Madre Natura» (una sorta di aggiornamento di «Che cos’è l’illuminismo» di Kant), vuole superare la condizione umana caratterizzata dalla morte, radicale fragilità e limite estremo di tutti i limiti umani. Nella «Lettera More» scrive, tra l’altro, riferendosi a Madre Natura, che noi esseri umani «abbiamo deciso che è ora di emendare la ‘costituzione umana’. Non lo facciamo con superficialità, leggerezza o senza rispetto, ma con prudenza, intelligenza e con obiettivo l'eccellenza. Vogliamo che tu sia fiera di noi. Nei prossimi decenni perseguiremo una serie di cambiamenti al nostro organismo, con gli strumenti della biotecnologia, in maniera razionale e creativa».
In questa prospettiva, è vero che solo la consapevolezza di ciò e il Logos ci transitano verso la sua, della morte, opzionalità oppure no? Quel che saremo sarà uno stadio dopo l’umano, lo scopriremo... Resta il fatto che possiamo intervenire sul suo oltrepassamento mediante l’esternalizzazione nanotecnologizzata delle funzioni cognitive immortali (l’orientamento del transumanesimo è definibile come religione secolare), in seguito installate nell’organismo umano. È possibile inquadrare il post-umano in una cornice mostruosa? Oppure i mostri siamo noi umani, destinati al declino, a marcire sotto terra, il cui futuro certo resta la morte? Nel merito, è incalzante la richiesta di chiarimento in questo nostro tempo, ed è un bene, anche perché le suddette domande non sono affatto nuove. Nuovi sono gli strumenti con cui si pensa di risolvere la questione della morte in una chiave “etica” inedita. Anche questo è nel solco dell’Apocalisse, però nella sua inversione spettrale e baconianamente distorta perché trascura la realtà spirituale degli angeli, unica fonte cosmosofica ed etica certa ed eterna.
Il dipinto del 1953: il Papa che urla di Francis Bacon e il riferimento a Velázquez (foto: uozzart.com)
Quanto detto può essere capito solo se vissuto in una ‘postura’ eraclitea: “La natura ama nascondersi”, e in una nuova cosmologia e antropologia apocalittiche: “E vidi un cielo nuovo e una terra nuova, infatti il primo cielo e la prima terra erano passati e il mare non c’è più…. E disse Colui che sedeva sul trono: »Ecco, io faccio nuove tutte le cose… Beati coloro che lavano le loro vesti, perché è dato loro potere sull’albero della vita e, attraverso le porte, di entrare nella città[4]».
[1] Libro di Enoch, XIV.10,11.
[2] Apocalisse, IV.1.
[3] G. Alvi, La necessità degli apocalittici.
[4] Apocalisse, XXI.1, XXI.5, XXII.14.