La trasformazione

Parole e note che ci cambiano

Metamorfosi di vite musicali

di Franco Ferramini

LP ITALIAN PROG 1975 Stormy Six 1280

foto: picclick.it

«Niente resta uguale a se stesso, la contraddizione muove tutto». Così, con la ripetizione di questa frase, finiva il brano «L’orchestra dei fischietti» del 1977 degli Stormy Six.

Una vita fa, un altro mondo, tempi in cui si sperava che il mondo si potesse trasformare in qualcosa di meglio per tutti. Regnava la Speranza, e la voglia di cambiare le cose brutte del mondo. Forse eravamo solo più giovani, ma si riusciva a pensare anche in positivo. Torneranno quei tempi, la teoria dei corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico lo indica chiaramente. «Ma noi non ci saremo», come ci spiegano in modo più popolare i Nomadi e Guccini.
Erano anni di trasformazioni sociali, e il clima musicale ne risentiva pienamente. Spesso proprio dalla musica nasceva la voglia di cambiare l’esistente.
Trasformazione è cambiamento, metamorfosi, come diceva Claudio Lolli, cantautore simbolo di una generazione, scomparso di recente che cantava nella sua bellissima canzone «L’amore è una metamorfosi»: «L’amore è una metamorfosi, dal silenzio ad un suono, da una vertigine di lana di vetro, al diavolo in pietra su un duomo… e non so più se sono una donna, oppure tu sei un uomo, ma in qualche modo, senza capire, in qualche modo ci sono…».

Qualche anno fa, in tempi di cambiamenti sociali e musicali, il Banco del Mutuo Soccorso si avventurava in brani che, a mio modesto parere, nulla hanno da invidiare alla musica colta, con il pezzo «Metamorfosi», virtuosismo musicale da grandi esecutori e compositori di note. Più semplicemente Gianni Morandi, qualche anno dopo, ci raccontava nella sua canzone «L’amore ci ha cambiato la vita» che «…è l’amore che ci ha cambiato la vita… è l’amore deluso, sconfitto, impazzito, scritto dentro mille canzoni…». Una canzone semplice che è una vera e propria boccata d’aria fresca nella nostra vita frenetica.

Il grande Lucio Dalla ci raccontava invece nella sua «Apriti cuore» la sua intenzione in una notte calda di ottobre: «Cambierò… cambierò… apriti cuore ti prego, fatti sentire… cambierò, tornerò come un tempo padrone di niente…». Nel 1975 Angelo Branduardi nella sua stupenda «Rifluisce il fiume» ci diceva «Cosa dice alla madre il figlio che crescendo va, non racconta poesie, ma sa… e niente mai perduto va, al centro tornerà…».

Nella storia della musica leggera (e non solo) italiana c’è però un personaggio che come un camaleonte si è trasformato, mimetizzato secondo i cambiamenti sociali e del suo genio, una storia personale senza uguali nella sua particolarità e nella sua intelligente varietà di esperienze musicali e di vita. Costui è Francesco Battiato. Nato a Riposto (Catania) il 23 marzo 1945, Francesco Battiato rappresenta il genio dell’adattabilità ai cambiamenti sociali e di costume della nostra Italia musicale. Lo chiameremo Franco, come sarà chiamato e come il mondo lo conosce. L’estrazione è sicula, nella Sicilia del dopoguerra che come tutto il resto della nostra nazione era avida di rinascere, di rivivere dopo la tragedia. Ma il genio era lì, nella mente di Franco, nella sua voglia di andare via, per esprimersi e cercare fortuna. Suo padre morì mentre lui aveva diciotto anni, e forse questa fu la spinta più forte per il suo cambiamento radicale di vita. Battiato dice «Davanti alla chiesa del mio paese si facevano le vasche e i discorsi con gli amici erano sempre i soliti…Minchia, sempre stu paese dimmerda! E cose del genere. Stanco di queste lamentele presi la decisione di andarmene.» Come un emigrante qualsiasi, in cerca di buona sorte, Franco lasciò la natia Sicilia una sera dell’inverno del 1964 e a diciannove anni si spostò a Milano, accompagnato da Gregorio Alicata, di cinque anni più vecchio di lui e ai tempi già musicista professionista. Perché può esistere anche un cambiamento nella vita degli uomini, una trasformazione che spesso crea estraniazione da usi e costumi della propria infanzia, della propria vita, lontano dai genitori e dalle cose care. Si può scegliere per avventura, per voglia di conoscere, o per fame, e si chiama emigrazione. Iniziarono gli incontri e i provini, la ricerca di persone che avrebbero potuto farlo crescere nella professione che aveva scelto, nella convinzione di fare il cantante, il musicista. Con la testardaggine di volerlo fare bene, essere artista per esprimersi, e non necessariamente solo per fare successo e soldi. In quegli anni Milano era ben lontana dall’essere la «Milano da bere» degli anni ’80. Era ancora la Milano col «coer in man», che accettava tutti quelli che avevano voglia di lavorare (perché di lavoro e speranza ce n’era ancora). La Milano delle grandi famiglie nel mondo del lavoro, con gli intellettuali invece in Brera, che era ancora un quartiere popolare dove vivevano le famiglie 'normali' nelle case di ringhiera, non un quartiere di 'movida' come è ora. La nebbia, quella vera, anche in centro città. Risiedere sui Navigli era quasi vivere in periferia. La Milano della 'Grande Inter' del presidente Angelo Moratti e del 'mago' Helenio Herrera. L’editoria musicale era tutta lì, in Galleria del Corso, a due passi dal Duomo. Lì attorno giravano musicisti alla fame provenienti da tutta Italia, in cerca di un provino, un contratto discografico, un passaggio in tv per la fama e il successo. Lì si aggirava anche il nostro Franco, alla ricerca di un’occasione per diventare un cantante famoso. Trovò un annuncio musicale «Cercasi voci nuove», per incidere dischi di plastica che la rivista «Nuova Enigmistica Tascabile» dava in omaggio ai suoi lettori. Incise una cover, «E più ti amo» di Alan Barriere, che però non gli fornì proventi sufficienti per pagarsi l’affitto di casa.  Allora trovò un lavoro di magazziniere presso l’editore di quella stessa rivista, la »Corrado Tedeschi Editore». Nel frattempo suonava ancora dove capitava per poche lire, fino all’esordio in un locale frequentato da allora giovani artisti del tipo Cochi e Renato, Enzo Jannacci, Bruno Lauzi, Lino Toffolo, Herbert Pagani ecc. ecc., il locale si chiamava «Cab 64».

Lì l’incontro con Giorgio Gaber, che gli aprì le porte della televisione. Franco voleva riuscire a vivere come cantante, farne una professione. Ma la personalità di Battiato era già forte. Pur avendone bisogno per mangiare, rifiuterà un contratto discografico perché lo volevano far esordire in duo con il suo amico Alicata, mentre lui si voleva affermare come singolo cantautore. Dall’apparizione in tv con l’amico Gaber, approderà più avanti alla trasmissione «Settevoci» di Pippo Baudo e cominciò a vendere dischi in quantità degne di nota. Finalmente si fece un nome nell’ambito della musica leggera italiana, quel ragazzo con gli occhiali e il naso adunco, magro e allampanato, con l’espressione fissa nel volto e un modo di cantare del tutto originale ma intonatissimo. Il 1969 fu un anno di svolta per il giovane Battiato. Cominciava ad essere stufo di dover assoggettarsi alla routine dell’industria discografica e si preparava quella che per lui sarebbe stata la sua prima grande trasformazione artistica. Le case discografiche capirono che quell’artista così particolare nel suo aspetto, nella sua mentalità sempre pronta a cambiare rotta, e così personale nel suo modo di cantare, non sarebbe riuscito a cogliere più successo di quello che riusciva ad avere. Franco Battiato in quegli anni non 'sfondò'. Tutta la carriera artistica di Franco Battiato è però un turbinio di collaborazioni con diversi personaggi musicali, innamoramenti artistici prorompenti, intuizioni da vero genio, in un panorama spesso circondato da 'immondizia musicale', per citare la sua «Up patriots to arms». Franco si appassionò alla musica sperimentale, fu uno dei primi in Italia a usare il VCS3, un sintetizzatore ideato da Peter Zinovieff a Londra nel 1969 per conto dell’EMS (Electronic Music Studios), quasi in contemporanea con i Pink Floyd, frequentò musicisti e creò musiche al limite della possibilità di essere ascoltate con predisposizione mentale diversa da un ascolto impegnato, profondo. Ascoltare la musica di Battiato per qualche anno non sarà facile. Bisogna tenere però in conto che erano anni in cui i giovani si addentravano anche in ascolti complessi, non banali, un periodo della storia in cui l’avvento di quello che ora si definisce musica 'progressive' aveva aperto strade di crescita intellettuale e di vita. L’industria discografica registrava riscontri, quei dischi si vendevano e si diffondevano in radio e in tv e allora si potevano sperimentare strade nuove e percorsi inesplorati anche al di fuori della musica classica.

Furono per Battiato anni di viaggi e d’innamoramenti per la cultura orientale. Nella prima metà degli anni Settanta, album come «Fetus», «Pollution», «Sulle corde di Aries», «Clic» portarono il nostro a una fama diffusa anche a livello internazionale che, per quei tempi e quel genere di musica, rappresentò un evento di non certo facile realizzazione. I guadagni erano sempre e comunque risicati, a lui non interessava diventare ricco. La sua era ai tempi una ricerca di ricchezza interiore e, nel 1975, ecco l’incontro con un libro che gli cambierà la vita. Un amico gli regalò «Frammenti di un insegnamento sconosciuto» di Ouspensky, libro in cui è descritto il pensiero di Gurdjieff. In questo volume l’autore descriveva otto anni a scuola da questo poeta, filosofo, musicista, mistico, scrittore che dopo anni di studi e ricerche in giro per l’Oriente definì la disciplina mentale della 'Quarta via'. In breve Gurdijeff asseriva che l’uomo per gran parte della sua vita agisce senza una reale consapevolezza di sé, come se dormisse a occhi aperti. Costui proponeva una soluzione per svegliarsi da questo continuo e totale sonno della mente e del fisico. Una folgorazione per Franco, che gli trasformò l’esistenza, continuò allora a cercare nuove strade, si esibì in pubblico in solitudine, illuminato sul palco da una sola luce, circondato dai suoi strumenti elettronici ai quali faceva eseguire ripetitivi 'pattern', quasi un’iterazione continua per spianare la strada a se stesso e all’ascoltatore a forme di meditazione trascendentali, che non fossero di questo nostro mondo superficiale. A uno di questi concerti lo scrivente ebbe la fortuna di assistere, in quello che si chiamava ai tempi Teatro Uomo a Milano, a un concerto in cui in quegli anni i confini tra meditazione filosofica, musica sperimentale e impegno sociale erano labili nella percezione comune, che al contrario però Battiato probabilmente tentava in quel periodo di definire e separare nettamente uno dall’altro.

La vecchia amicizia con Giorgio Gaber lo portò nel 1978 a firmare insieme a Giusto Pio (altro personaggio fondamentale nella sua vita), l’arrangiamento dello spettacolo teatrale «Polli di allevamento», nel quale si prende di mira il movimento giovanile di quegli anni, accusato di velleitarismo e conformismo. Una vera e propria provocazione artistica, che produsse dibattiti accesi e accuse di essere 'reazionario' al Gaber dei tempi, sintomo però di un periodo in cui stavano morendo gli anni Settanta e ci si stava inoltrando negli anni Ottanta, gli anni del riflusso interiore, di una ricerca più incentrata su se stessi, dopo gli anni del collettivismo a tutti i costi. Dallo slogan «il personale è politico», nel senso che tutto ciò che era privato doveva essere pubblico, si stava tornando alla riscoperta della centralità del singolo individuo, un ripiegamento su aspetti personalistici legati anche a forme di meditazione orientale e individuale. Così può non sembrare nei testi dei successi che precedono il Battiato dell’esplosione discografica nell’album la «Voce del padrone» nel 1981. Nella canzone precedente «Up patriots to arms», ad esempio, c’era un’esortazione al risveglio sociale che sembrava quasi un ultimo avviso alla rivolta, un’esortazione finale per cambiare qualcosa in tempo utile prima del grande riflusso. Ci provò, ma arrivarono gli anni dell’«edonismo reaganiano» e del liberismo, e nulla sarà più possibile. Battiato si inoltrò decisamente nella strada della 'forma canzone' e ebbe finalmente successo, che lo porterà a sentire le sue canzoni riprodotte in tutte le radio e canticchiate per strada. Diventò un uomo ormai maturo, consapevole dei propri mezzi artistici e intellettuali. Una carriera in continua evoluzione la sua, mai ferma sugli allori ricevuti. Con l’album «La voce del padrone» iniziò il Battiato più conosciuto, le canzoni meravigliose che tutti noi apprezziamo, di cui è inutile fare menzione. Una carriera in continua evoluzione, che lo portò anche alla composizione di opere sinfoniche, ovviamente meno famose e apprezzate dal grande pubblico rispetto alle sue canzoni. Quanta trasformazione però, quanta evoluzione, quanto genio, inteso nel senso di una fervida attenzione a tutto ciò che si muove nel mondo, con la capacità di Battiato di recepire e creare musiche e canzoni che per sempre resteranno nella storia della musica.

cat stevens 1280

I cambiamenti nelle vite degli uomini possono essere determinati da molteplici fattori. Condizioni economiche migliorate o peggiorate, malattie più o meno gravi, eventi improvvisi quali colpi di fortuna o accadimenti tragici, più altri svariati fattori che lascio pensare al lettore. Ci sono anche delle trasformazioni che avvengono dopo essere state latenti per molti anni, accantonate per molto tempo e poi emerse e concretizzate, decisioni che spesso lasciano interdetti chi ti conosce, ti ama e ti apprezza per quello che sei stato prima di queste mutazioni più o meno meditate. Steven Demetre Georgiu, oggi si chiama Yusuf Islam, nacque a Londra il 21 luglio 1948. Beh, il grande pubblico non lo conosce con questi due appellativi: tanto per intenderci, parliamo di Cat Stevens. «Wild world», «Morning has broken», «Father and son», eccovi sparate tre canzoni, tre pietre miliari del cantautorato mondiale, tre capolavori. Sono sue, come decine di altre parimenti stupende, famosissime canzoni. Del tutto personale a un certo punto è stata la sua scelta di vita, quella di abbracciare la religione islamica cambiando nome. Lui dice che la scintilla per il suo cambiamento scoccò dopo aver rischiato di annegare a Malibù, in realtà tutto covava sotto la cenere da qualche tempo. Per molti cantanti di successo spesso ci sono dei momenti nella propria carriera in cui diventa difficile reggere il ritmo dello 'star system', per loro spesso si crea una barriera tra quello che vorrebbero esprimere come artisti e come uomini e quello che invece chiedono le case discografiche e il pubblico. Diventa inevitabile il bisogno di staccare dai ritmi frenetici imposti dal successo, spesso molti di loro nella storia si sono accostati a discipline spirituali di vario tipo, quasi a cercare una dimensione più vera e meno 'glamour' della propria vita. Cat Stevens è uno degli esempi più eclatanti di ciò. Nacque musicalmente nel periodo della «Swinging London», lo pseudonimo artistico «Cat» fu assunto dopo che una sua amica gli fece notare che lui aveva 'occhi di gatto'. All’epoca era un cantante commerciale, faceva dischi di musica veramente 'leggera'. La sua prima trasformazione avvenne a seguito di una malattia, la tubercolosi, per la quale dovette passare un certo periodo in sanatorio. Qualcuno dice che quei tre mesi di ospedale a vent’anni di età furono invece dovuti a una disintossicazione da eccessi di alcool e droga, nei suoi primi anni di grandi successi nel mondo del pop britannico e non solo. Dopo avvenne il suo primo cambiamento di vita, nel fisico (barba e capelli lunghi) e nella musica, Il primo passo verso lo Yusuf.

Nel biennio 1970-71 ecco la pubblicazione delle sue canzoni più belle e più famose, quelle che resteranno nel tempo, e le collaborazioni con musicisti del calibro di Rick Wakeman e Peter Gabriel. Fu la consacrazione di un grande della musica pop. Il pubblico lo adorerà in tutto il mondo. Può essere emblematico un episodio all’arrivo all’aeroporto di Sydney, all’inizio di una tournee australiana nell’agosto 1972. Cat fu aggredito da una folla in delirio, ne esce con i vestiti letteralmente a pezzi, con le forze dell’ordine che a fatica contengono la follia dei fans. Trattamenti riservati ad artisti del calibro dei Beatles, giusto per fare un nome. Sempre latente, contenuta con fatica ma pronta a esplodere da un momento all’altro, arieggiava però intorno a Cat una forte insofferenza per quel mondo, da un lato così luccicante e gratificante ma spesso vuoto e superficiale: quando l’artista rimane solo con se stesso in una camera d’albergo a dialogare con i propri fantasmi mentali, per cercare disperatamente di mantenere un contatto con la realtà della vita, pensa che deve esistere anche dell'altro, oltre a folle adoranti che ti snaturano da quello che solo tu sai di essere. Quanti artisti si sono smarriti in queste condizioni, quanti hanno perso la vita. Covare un cambiamento, nell’indecisione. Sintomatico di ciò è il titolo del suo album del 1974, “The Buddha and the chocolate box”. In aereo, di ritorno da un viaggio in Florida, per una casualità il cantante si trovò in una mano un Buddha di porcellana e nell’altra una scatola di cioccolatini. Finirono nella copertina del suo nuovo disco, a rappresentare l’indecisione tra un mondo di piaceri terreni e un universo di soddisfazioni spirituali, un tormento interiore che da lì a pochi anni lo portò al cambiamento radicale della propria vita e all’incomprensione da parte di molti dei suoi vecchi estimatori in tutto il mondo. Diventò Yusuf Islam, non ci sarà più Cat Stevens.

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foto: www.artspecialday.com

Continuò a scrivere canzoni religiose, in cui il Dio mussulmano la faceva da padrone, molti non gli perdoneranno questa scelta. Questa di Cat ebbe la caratteristica di essere una soluzione sincera, una trasformazione determinata da un forte bisogno interiore, quasi fisico, di cambiare per non perdersi, per realizzare finalmente quello che da decenni covava nella sua mente. Nel 1977 la conversione. Il 7 settembre 1979 Yusuf Islam sposò Fawzia Alì nella moschea di Regent’s Park a Londra. Il 22 novembre dello stesso anno l’ultima apparizione pubblica come Cat Stevens, allo stadio Wembley di Londra. Nel 1980 nacque la prima figlia, Hasanah, per la quale Yusuf scrisse la prima canzone “islamica”, “A is for Allah”. L’età e gli anni che passano spesso producono nelle persone delle mediazioni tra quelle che sono state fino a quel momento le proprie scelte di vita, le proprie idee sostenute senza deviazioni dalle proprie assolute convinzioni si smorzano in una conquistata saggezza. Così ricominciarono le apparizioni pubbliche di Yusuf nella veste del vecchio Cat, con le sue canzoni più famose a far commuovere le platee del mondo. Memorabile per gli italiani quell’esibizione a Sanremo 2014: vederlo di nuovo sul palco, con i suoi sessantasei anni portati benissimo, solo lui e la sua chitarra, cantare «Father and son», è stata un’emozione fortissima per molti. Così in questi ultimi anni è possibile vederlo su Youtube dal vivo in diverse occasioni, bellissima è la «Morning has broken» in duo con Rick Wakeman al piano: due attempati ma eccezionali mostri sacri del pop, la voce ancora meravigliosa di «Cat-Yusuf» e gli intermezzi al piano di Wakeman, per farci capire che spesso i ritorni di vecchie situazioni e sensazioni, bellissime e apparentemente ormai perse per sempre, a volte sono ancora possibili. O ancora, tanto per rendere l’idea di che tipo di 'flash emotivo' possa essere rivederlo sul palco a cantare le sue vecchie canzoni, vi consiglio di vedere sempre su Youtube un altro video, «Cat Stevens - sad lisa feb 2015» in cui sono inquadrate immagini del pubblico durante un concerto al Festival di Vina del Mar in Cile, tra cui un omone in là con gli anni con gli occhi pieni di lacrime dal minuto 1 e 55 in avanti.

La vita è una continua trasformazione. Le cellule del nostro corpo si rigenerano in continuazione ma inesorabilmente invecchiano. «Il mio corpo che cambia» è una famosa canzone dei Litfiba che recita «... ecco cos’è tutto il mio stupore, non è facile guardare in faccia la trasformazione… è il corpo che cambia, nella forma e nel colore, è in trasformazione…». Anche il cervello quindi si modifica, il tempo cambia la storia e le persone. Le emozioni però che ci regalano certi artisti possono anche non cambiare, lasciandoci ogni volta in quella sorta di limbo tra quello che eravamo molti anni fa quando ascoltavamo le loro canzoni e quello che siamo oggi all’ascolto delle stesse. Perché nelle nostre esistenze possono essere belli i ricordi del passato e i progetti del futuro; ma a volte, in contemporanea, è bello anche il presente. Ecco, quelli sono i nostri giorni migliori.

Per finire, il testo di una delle più belle e significative canzoni di Yusuf-Cat Stevens:

Where do the children play

(dimmi, dove giocano i bambini?)
dall’album «Tea for the Tillerman» del 1970.

Beh, penso che sia carino
costruire grandi aeroplani
o fare un giro
su di un treno cosmico
cambiare l’estate da una slot machine
ottenere quello che vuoi se lo vuoi
perché tu puoi avere tutto

Lo so, abbiamo percorso una lunga strada
stiamo cambiando giorno dopo giorno
ma dimmi… dove giocano i bambini?

Beh, tu costruisci strade
su verdi e freschi prati
per i tuoi camion pompi petrolio
e le fate lunghe e resistenti
ma loro semplicemente viaggiano e viaggiano
e sembra che tu non riesca a scendere

Lo so, abbiamo percorso una lunga strada
stiamo cambiando giorno dopo giorno
ma dimmi… dove giocano i bambini?

Quando rompi il cielo
si sente l’aria a pezzi
vuoi continuare a costruire sempre più in alto
fintanto che non ci saranno più camere lassù?
Vuoi farci ridere?
Vuoi farci piangere?
Vuoi dirci quando vivere?
Vuoi dirci quando morire ?

Lo so, abbiamo percorso una lunga strada
stiamo cambiando giorno dopo giorno
ma dimmi… dove giocano i bambini?

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