L’inferno
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L’inferno della mente
Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo
di Luca Conca
«Qualcuno volò sul nido del cuculo», dal film di Miloš Forman, 1975
Non è possibile pensare al libro senza pensare immediatamente al film omonimo del 1975 con Jack Nicholson.
Poche volte una riduzione cinematografica è riuscita così efficacemente a restituire perfettamente personaggi, ambienti e atmosfera di un romanzo e allo stesso tempo a creare un genere. Ci è appunto riuscito «Qualcuno volò sul nido del cuculo», di Milos Forman, un film che vinse 5 Oscar ed entrò nell’immaginario di tutta una generazione.
Il fatto curioso è che pochi sanno, nonostante una delle statuette vinte fosse proprio per la sceneggiatura 'non originale', che il film nasce da un libro, bellissimo, del 1962, di Ken Kesey.
Kesey è un autore poco conosciuto in Italia, al di là del romanzo che gli ha dato notorietà, essendo più legato alla controcultura americana e a certe istanze politico-sociali degli anni ‘60. È però un personaggio particolare che proprio nelle sue stravaganti esperienze personali ha trovato stimoli per la sua scrittura.
Infatti nel 1959 all'Università di Stanford prese volontariamente parte ad uno studio sulle sostanze psicoattive finanziato dalla CIA, noto con il nome di MKULTRA. Queste sostanze includevano LSD, mescalina, psilocibina, cocaina e DMT.
Kesey scrisse resoconti molto dettagliati su questo test, sia durante lo studio vero e proprio, sia negli anni in cui proseguì privatamente la sperimentazione.
Ma l’esperienza che sta davvero alla base dell’idea del romanzo e del materiale per «Qualcuno volò sul nido del cuculo» Ken Kesey la vive trascorrendo alcune settimane all’interno dell’Ospedale per Veterani di Menlo Park e dai colloqui con le persone lì ricoverate.
Con questi pazienti lo scrittore instaura un rapporto di confidenza e anche si direbbe di vicinanza, visto che spesso si relaziona con loro sotto l’effetto di quelle sostanze psicoattive che sta sperimentando.
Al di là quindi di un giudizio sull’effettivo valore sociale di questo comportamento liberale e trasgressivo (che negli anni portò Kesey a un abuso di quelle sostanze) resta il fatto che proprio attraverso la frequentazione dell’ospedale e delle tante ore passate con gli ospiti, lo scrittore riesce a mettersi in sintonia e a sviluppare una sensibilità sorprendente.
Kesey scopre un’umanità dimenticata, ancor prima che emarginata; dimenticata dalle famiglie ed emarginata dalla società e dalla struttura ospedaliera stessa.
La raccolta del materiale occupa lo scrittore per mesi e dall’osservazione dei malati e dai rapporti di fiducia instaurati si delinea una casistica psichiatrica, una catalogazione delle paure, delle ossessioni, dei tic compulsivi, delle vite alienate e deliranti.
Ora lo scrittore è pronto a raccontare tutto ciò che ha visto e condiviso e sceglie di ambientare il romanzo in un ospedale dell’Oregon.
«Qualcuno volò sul nido del cuculo», film di Miloš Forman, 1975
Nei primi capitoli il lettore è quindi immerso nella presentazione del microcosmo all’interno dell’ospedale: i pazienti vivono una routine rassicurante e anestetizzata, completamente isolati dal mondo esterno, in cui le dinamiche sociali sono limitate ad un’organizzata e controllatissima interazione nelle ore di terapia di gruppo. Le visite sono centellinate, così come le occasioni di socialità all’esterno. I personaggi sono soli con le loro ossessioni e non è un modo semplicistico di riassumere un canovaccio letterario; «Qualcuno volò sul nido del cuculo» ha la preveggenza di un classico, ma ciò che lo differenzia subito da un certo genere è la drammatica aderenza con i veri disagi di un paziente psichiatrico.
Dicevamo che i ricoverati sono soli con la loro mente e Kesey sa spiegarci perché questa loro mente è tremenda e spaventosa. Un tormento per ognuno, una condanna. I malati sono lì perché perdono ogni giorno la loro battaglia per la lucidità, per la giusta visione delle cose. La loro mente è il loro inferno personale. Non ne sono prigionieri, ne sono i guardiani. I loro disagi psichici sono così caratterizzanti da dare ad ognuno una propria stramba identità.
Nel libro, narrato in prima persona da Bromden, un capo indiano ricoverato lì fin da ragazzino, non c’è soluzione di continuità tra la visione lucida e oggettiva del reale e le improvvise svolte allucinate della percezione. Bromden racconta contemporaneamente ciò che vede e ciò che è convinto di vedere, e il lettore ha così un esempio vivido di quanto possa essere ingannevole una mente malata.
Ken Kesey, l'autore del libro
Kesey divide i pazienti tra cronici ma recuperabili ed irrecuperabili. Le pagine più impressionanti, senza però mai cadere nel compiacimento, sono quelle dedicate a questi sfortunati, a questi derelitti che la medicina e la società non possono più recuperare, riportare in superficie. O meglio, la medicina ha tentato di salvarli con lo strumento peggiore, l’elettroshock, e li ha condannati per sempre all’oblio.
Tutto il romanzo è una dura apologia sulla disumanità di questo rimedio ultimo per ricondurre i malati psichiatrici a comportamenti innocui per se stessi e per gli altri, con una chiara contestazione nei confronti dell’annullamento della libera scelta e della coscienza di sé.
Tutti i personaggi del libro sono soggiogati dall’ordine e dalle regole dell’ospedale e sono tenuti sotto scacco dalla Grande Infermiera, una donna cinica che giustifica la propria totale alessitimia con un bisogno di disciplina e ordine. Il caos è la malattia; l’emozione è la malattia.
In questo contesto un giorno fa la sua entrata Randle McMurphy, «un irlandese cocciuto, spavaldo, allegro e ribelle, che risveglierà i pazienti ormai avviliti dalle terapie e riuscirà a portare una ventata di umanità e di calore», come recita la quarta di copertina dell’edizione BUR del romanzo. E davvero McMurphy ha la forza travolgente di un tornado e una simpatica aria da mascalzone, resa ancor più trascinante dalla sua spregiudicatezza: non fa mistero di essersi fatto ricoverare in quell’ospedale fingendosi pazzo per non scontare in carcere una condanna per piccoli reati.
Louise Fletcher, l'infermiera nel film «Qualcuno volò sul nido del cuculo»
L’energia e i modi spicci e diretti di McMurphy sono anche la chiave vincente per accattivarsi l’affetto dei pazienti, che non si sentono giudicati o emarginati e che respirano grazie a lui un’aria di folle normalità, uno squarcio sulla bellezza e la ricchezza del mondo là fuori, pieno sì di pericoli ma anche di nuove possibilità.
Pur sapendo di essere controllato e di rischiare di tornare tra i carcerati 'regolari', Randle si fa coinvolgere dai disagi dei nuovi compagni e decide di scuoterli dal loro torpore e dalla loro quieta accettazione dell’ordine prestabilito; è l’unica via per donare ad ognuno un po’ di dignità e di speranza.
Due binari paralleli, da una parte McMurphy e la sua impavida irruenza e dall’altra la paura paralizzante degli ospiti dell’ospedale, che lentamente si sovrappongono, in una visione in trasparenza di quanto possa essere folle, pericolosa e drammatica, la voglia di ribellione e libertà.
«Non potevamo fermarlo perché eravamo noi a farlo agire. Non l’infermiera lo costrinse, ma fu la nostra necessità a far sì che egli si sollevasse adagio dalla poltrona, a far sì che le grosse mani esercitassero una pressione sui braccioli di cuoio e lo spinsero su, a far sì che egli si mettesse e rimanesse in piedi come uno di quei cadaveri viventi dei film dell’orrore, ubbidendo agli ordini trasmessigli da quaranta padroni. Eravamo stati noi a farlo agire per settimane, mantenendolo in piedi molto tempo dopo che piedi e gambe avevano ceduto, eravamo stati noi, per settimane, a fargli strizzare l’occhio e sorridere e ridere e continuare la recita molto tempo dopo che l’umorismo di lui era stato disseccato tra due elettrodi».