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Dieci dicembre
di George Saunders
George Saunders (foto: electricliterature.com)
Esiste una sensazione strana, difficile da descrivere, che lascia il lettore stranito, quasi confuso, con un senso di vuoto e un po’ di amaro in bocca.
Dico che esiste perché non l’ho provata io soltanto, e il che potrebbe essere un mio personalissimo modo di percepire alcune situazioni, di assorbirle e quasi immediatamente rigettarle per cercare di guardarle con occhi non miei. Invece ho la prova che altri lettori, anche dissimili da me, hanno provato lo stesso identico senso di confusa sospensione.
Mi capita di rado, e generalmente non è quasi mai un romanzo a provocarmi quest’epifania, bensì un racconto.
Trovo che i racconti, rispetto ai romanzi, siano un universo a sé, abbiano la capacità di «colpire e affondare» il lettore con una velocità inimmaginabile, e che proprio per la qualità della sintesi che spesso li accompagna, offrano una possibilità di interpretazione personale e al tempo stesso oggettiva.
Sembrerebbe un ossimoro, ma credo che chiunque si trovi a leggere un breve racconto di quattro o cinque pagine, non possa eludere il messaggio che lo scrittore si era prefisso di trasmettere ma al tempo stesso possa farlo proprio in modo molto personale e non veicolato dall’autore con pagine e pagine di parole.
Ho scoperto Saunders anni fa, in occasione dell’uscita della sua raccolta di racconti «Dieci dicembre». L’autore texano, ingegnere geofisico, classe 1958, in quell’occasione era stato incluso dal New Yorker nella lista dei «venti scrittori per il 21° secolo» e proprio la raccolta «Dieci dicembre» era stata definita dal New York Times «il miglior libro del 2013». Con queste altisonanti premesse sono partita scettica, come sempre.
E invece mi piacque moltissimo. Ne colsi subito i richiami alla letteratura americana che tanto adoro: Palaniuk, Carver, Wallace in primis.
Eppoi. Eppoi è successo tutto quello che è successo negli ultimi due anni. E ho ripreso il libro dallo scaffale, in cerca di quel preciso racconto.
Adesso, perché come spesso accade il momento storico oppure la situazione contingente che si sta vivendo ci portano a riscoprire e a dare un nuovo senso a ciò che abbiamo già letto in altri periodi della nostra vita. Richiami, analogie, sovrapposizioni.
Nel racconto si parla di cavie umane, di somministrazione coatta di farmaci, di sacrifici umani in dono alla scienza e alla sperimentazione. «I mandati della scienza, e i suoi dettami», dice Abnesti, colui che somministra farmaci sperimentali a detenuti utilizzati come cavie reclusi in una struttura protetta a forma di ragno.
«Sono un mostro?». domanda Abnesti a Jeff, il detenuto-cavia. E la domanda appare ironica e sadica insieme. Perché Jeff, come gli altri detenuti, si è macchiato di crimini efferati, e per questo è un mostro e deve espiare la sua colpa, mentre Abnesti è solo un regista, un esecutore di ordini, un burocrate del protocollo. Lui e il suo assistente Verlaine - sì, proprio come il malinconico poeta decadente - sono al servizio della scienza.
Jeff è il protagonista, anch’esso suo malgrado al servizio della scienza. Sul suo corpo è costretto a provare sostanze di vario tipo dai ridicoli nomi medicinali che Saunders cita con tanto di marchio registrato, come a suggerire ironicamente un nesso tra salute e marketing. Obiettivo della ricerca è un perfetto controllo della vita emotiva dell’essere umano, privata del dolore e della sofferenza. Intento che Abnesti sottolinea quando dice: «È facile essere buoni in piccolo, ma fare il bene su vasta scala, quello sì che è difficile».
Gli effetti delle sostanze, somministrate mediante un dispositivo sottocutaneo azionato da un telecomando a distanza, sono devastanti e sono meticolosamente registrati dalla cabina di regia. Ed è agghiacciante come prima di ogni somministrazione il regista stesso chieda alla cavia una sorta di consenso. Peraltro inutile, perché quando manca viene comunque estorto con un apposito farmaco. «A che serve un farmaco per l’obbedienza se bisogna chiedergli il permesso di usarlo?» si domanda Abnesti.
Il senso di colpa che predispone al sacrificio. E l’espiazione che si trasforma in estremo gesto d’amore collettivo. Ci ricorda qualcosa?
Letto il racconto, fatte decantare le mille sensazioni ricevute, viene da chiedersi chi sono io oggi. Jeff, Verlaine, Abnesti. Chi è il mostro? In che misura testiamo le nostre emozioni su quelle altrui? Chiediamo un consenso? Quanto dobbiamo assolverci agli occhi degli altri in virtù di un ipotetico bene futuro collettivo?
Non sarà certo l’anedonia la panacea di tutti i mali. Non provare più alcun piacere, dolore ed empatia potrà renderci più forti ma non migliori. Sorvoleremo su tutto e tutti, come uccelli in volo, in un ultimo sacrificio che tenga in vita «un normale sentimento di umanità», una speranza. Che è poi l’immagine, ancora alla fine, disegnata da Saunders in questo breve intenso racconto dal titolo «Fuga dall’aracnotesta».