L'eros
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Oncologia ed eros
L'impotenza dello specialista
a cura di Alessandro Bertolini
Non ho pretese di raccontare in termini medici cosa giri attorno al concetto di amore.
L'uso del termine greco, eros, accende malizie che mal si accostano alla mia professione e anche al mio carattere.
Dicevo, non ho pretese, perché non sono un sessuologo e oggi che va di moda sui rotocalchi questa ultraspecializzazione della ginecologia o dell'urologia, è giusto assegnare ad essa un spazio onorevole nell'ambito della sanità pubblica.
Nella materia oncologica l'amore è qualcosa di accantonato, difficile da gestire per assenza assoluta di competenze e in più di un'occasione ho citato questa affermazione come un dato oggettivo. All'interno del nostro gruppo chi sa trattare con i pazienti dell'argomento è solo la psicologa, che lo fa per formazione professionale.
È lei che ha il coraggio di chiedere all'interno della coppia, di cui uno dei due è nostro paziente, se esista ancora un'attività sessuale. Per i medici questo aspetto è vissuto con pudore, direi con negligente ignoranza e difficilmente trova soluzioni operative. La psicologa è un ottimo trait d'union con gli esperti dell'urologia.
Noi non siamo in grado di occuparci del problema, tuttavia esso esiste e grazie al supporto della psico-oncologia cerchiamo di affrontarlo come gruppo nel migliore dei modi.
Che esista, lo so bene, da quando tanti anni fa (allora ero giovane e molto coinvolto dal tecnicismo della mia preparazione) ebbi l'incontro con un paziente che era stato operato di un tumore del retto con la salvaguardia dello sfintere. Tuttavia, per fare questa cosa, egli aveva subito come effetto collaterale quello di ritrovarsi impotente a causa di una denervazione chirurgica inevitabile. Io lo attendevo per parlare di prognosi e non della sua sessualità. Avrei dovuto spiegargli che c'era la necessità di una chemioterapia, ma egli fin dalle prime parole mi chiese quando avrebbe potuto tornare ad una vita sessuale normale. Ebbi un tremito, perché compresi in quel momento che nessuno prima del mio appuntamento gli aveva spiegato la tecnica chirurgica e le inevitabili complicanze. Dovetti farlo io. Mi accorsi che il paziente era più coinvolto dalle difficoltà della sfera sessuale che non dal sapere se avesse o meno una necessità assoluta di chemioterapia.
La nostra materia evolve, cresce in conoscenze, ha bisogno di continui aggiustamenti culturali, tuttavia il tecnicismo esasperato non basta, perché non aiuta in senso pieno i malati. Anzi, se non si capisce fino in fondo quale sia il problema del paziente, non si accende in lui il vero rapporto fiduciario con chi si offre come curante. E i problemi dei pazienti alle volte non sono rappresentati dalla prognosi o dal sapere se dovranno affrontare o no la chemioterapia, ma sfuggono e sono anche dinamici, perché se oggi è la sessualità che domina, domani sarà il lavoro, oppure il mancato guadagno, la perdita di validità fisica o il cambiamento del soma.
Io credo che la cura di un paziente col cancro non possa essere un unico atto medico, specialistico, ma debba essere un lavoro d'equipe, all'interno della quale ci devono stare i clinici, ciascuno per le proprie competenze, gli psicologi, gli assistenti sociali, i volontari e gli ex pazienti. Questi aiutano a cogliere i problemi del momento e ad instradare verso il giusto percorso. L'equipe multidisciplinare non basta, perché con questo termine si identifica sempre e solo un consesso medico, l'equipe deve essere multiculturale, deve saper affrontare le difficoltà fisiche, emotive, sessuali appunto, ma anche di fede e di cultura.
Immaginatevi il rischio che si corre a curare con chemioterapia un paziente che per fede non accetterà mai emotrasfusioni, oppure un paziente che debba seguire il rito del digiuno dettato dal Ramadan islamico. La cura per essere davvero a tutto tondo non può prescindere da una summa di disponibilità professionali e conoscenze.
Alessandro Bertolini: Direttore SC Oncologia Medica, Direttore DIPO XV della Provincia di Sondrio