Il silenzio
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Il silenzio dei montanari
Quando diventa anche controllo o condizionamento sociale
Rughe della memoria© IL BERNINA.ch
La gente delle montagne non parla molto. Addirittura, i primi antropologi che fecero lavoro di campo fra i contadini alpini dichiararono che i bambini delle frazioni in quota erano tendenzialmente ritardati.
I genitori raramente parlavano ai più piccoli; se gli rivolgevano la parola, era per dargli ordini, o per intimargli di togliersi di torno. Per questo motivo, imparavano a parlare più tardi dei coetanei di città, e raramente sapevano articolare un discorso compiuto.
In pratica, scambiavano il silenzio per stupidità e lo associavano al "non aver niente da dire".
Niente di più falso: la straordinaria produzione culturale orale (basata fra l'altro proprio sull'uso della voce!), sia a livello di canzone popolare, che di racconto e di leggenda, dei popoli delle Alpi, testimoniano quanto aveva da dire la nostra gente. Ma dimostra anche che le parole non sono per tutti, e per tutte le occasioni: piuttosto che parlare a vanvera, o magari ferire con un discorso inappropriato, o rivelare cose che sarebbe molto meglio non dire, è meglio star zitti.
Perché appunto, un buon tacer... non fu mai scritto.
Quel che dice la gente: l'educazione al silenzio, a non farsi vedere
In una comunità piccola, chiunque è sensibilissimo alle critiche, ai pettegolezzi, alle dicerie sulla propria persona. Fatti del passato, per un esterno assolutamente insignificanti, assumono una grande importanza, anche perché il passato è sempre presente nella vita della gente, visto che tutti conoscono tutti gli altri, ascendenti e discendenti; le amicizie fuori sono poche, e gli argomenti di conversazione riguardano i compaesani. Inoltre, il controllo sociale e le sanzioni, in caso di trasgressione alle regole, o della diffusione di una notizia tenuta segreta per anni, possono essere vissute in maniera estremamente penosa e penalizzante per chi viene colpito dalla pubblica disapprovazione.
Quando l’universo di riferimento è limitato, qualunque cosa capiti che incrini il quieto vivere con i vicini, viene considerato come una tragedia. In un contesto come questo, l’antropologo deve assolvere un compito delicatissimo, perché le persone gli rivelano la propria storia, e anche quella di amici, parenti e conoscenti. Quasi sempre, con la condizione che «certe notizie però non devono uscire da questa stanza».
Invece, lo scopo della ricerca è esattamente il contrario: non solo portare alla luce i fatti, ma anche analizzarli in maniera incrociata sulla base di quanto gli altri hanno rivelato sulla stessa cosa, e poi interpretarli per poterne dare una spiegazione, che di solito è completamente diversa da quella fornita dagli ospiti e, talvolta, è persino offensiva per le loro categorie culturali, inaccettabile.
Fin da piccoli, si viene educati a non manifestare il proprio dissenso in pubblico, a “non far vedere che si fa il proprio interesse”, anche quando è perfettamente legittimo, a “non credersi di più degli altri”, a non “farsi vedere”. In molti casi, la paura di mostrare che si sono “fatti i soldi” ha portato a investire fuori dal paese, a depositare i risparmi nella banca della città più vicina piuttosto che nella banca della propria valle, anche se la filiale è aperta sotto casa, “per non far vedere agli altri i propri affari”. Dentro al paese non bisogna farsi vedere a “spendere”: fino a un certo punto la spesa è accettata, poi si ha paura di essere “criticati”.
Le stesse campagne elettorali si svolgono nel silenzio. Generalmente, a livello individuale, si tenta di non schierarsi con nessuno, di non dichiarare la propria appartenenza politica. Di fare, appunto, silenzio. Non è per niente insolito che, quando si svolge una campagna elettorale con più liste all’interno del paese, viene percepita come devastante e talvolta chi perde si rifiuta di portare il proprio contributo alla nuova giunta.
Mentre in un contesto urbano i candidati si espongono con pubblici comizi, spesso non solo esponendo le proprie posizioni ma urlando insulti ai concorrenti di parte avversa, nei piccoli paesi alpini chi vuole diventare sindaco comincia ad andare casa per casa, la sera, cercando di non dare nell'occhio, senza nemmeno dire che ci si metterà in lista. Si comincia dagli amici più stretti; poi, pian piano si allarga il cerchio. Quando ci si espone e si rompe il muro del silenzio - perché nel frattempo, tutti fanno finta di non sapere e parlano sottovoce, visto che "non c'è ancora niente di ufficiale" - è sicuro, o quasi, di avere già vinto. Il conflitto aperto, o un più semplice “confronto democratico”, si rivela spesso problematico e si cerca di evitarlo in ogni modo, anche da parte delle amministrazioni.
La stessa cosa avveniva quando due si fidanzavano: o meglio, iniziavano a "parlarsi". Cioè a smettere di fare silenzio. Quando rendevano pubbliche le loro intenzioni, le pubblicazioni venivano appese nel giro di qualche giorno. Nel frattempo amici e parenti - che si erano accorti dei loro sentimenti - semplicemente stavano zitti, "per non rovinare tutto". Per paura degli "invidiosi" che avrebbero potuto metterci una "cattiva parola" (ne bastava una, fra gente abituata tacere).
L’invidia è uno dei sentimenti più sentiti dalla gente dei paesi. E anche questo, è un tarlo che si consuma in silenzio, perché è inconfessabile. Non bisogna pensare, però, che l’invidia sia un sentimento caratteristico della cultura alpina. In realtà, si tratta di una reazione tipica dei piccoli gruppi tendenzialmente chiusi, anche urbani. Basti pensare che gran parte delle cause discusse dagli avvocati riguardano liti di condominio. Per non parlare del “mobbing” negli ambienti di lavoro, che spesso ricordano le caratteristiche di piccole comunità. Per le motivazioni adottate per le molestie fra colleghi una delle più ricorrenti è l’invidia. Quindi non si può imputare questo sentimento alla cultura alpina ma, piuttosto, ai gruppi umani piccoli, chiusi, in cui si praticano attività quasi uguali per tutti e ripetitive, dove ogni minima differenza viene vissuta negativamente e penalizzata.
I conflitti sembrano ridotti al minimo con l’azzeramento dei motivi di rivalità: nessuna differenza sociale evidente, impossibilità di prevaricare sugli altri, obbedienza alla tradizioni. Le sanzioni della disobbedienza sono per lo più solo morali (la disapprovazione collettiva), ma temutissime. “Ciò che dice la gente”, ovvero la rottura del silenzio, è ancora oggi una preoccupazione continua e un deterrente difficile da capire per chi vive in contesti culturali diversi, il controllo sociale è un meccanismo che determina spesso l’abbandono di quanti non sono d’accordo con la civiltà di paese ma, piuttosto che vivere “sotto gli occhi di tutti”, "mentre tutti parlano" se ne vanno.
Uscire dal silenzio
È attraverso le fonti orali e specialmente le biografie che si tenta di comprendere, partendo dalle esperienze personali, in quale modo gli individui traducono e mettono in pratica delle regole generali, sociali. Questo tipo di procedimento resta uno dei più efficaci e preziosi per capire come uomini e donne interiorizzano gli obblighi culturali e come, d’altra parte, si intenda la trasgressione alla regola, argomento principale di questa ricerca. Le testimonianze orali permettono di completare ciò che si è conservato all’interno delle fonti scritte, quando sono disponibili; ma in special modo, consentono di dare voce agli “ultimi”, a quei gruppi che non hanno mai potuto parlare, chiusi nel mutismo imposto dalla marginalità, dalla lontananza, dal disprezzo degli altri, di quelli che erano andati a scuola e sapevano scrivere bene. Fra i vari tipi di componenti sociali marginalizzate dalla “grande storia”, e costrette al silenzio, quello femminile è fra i più estesi.
In effetti, quando si lavora con le fonti orali, altrettanto importante del discorso che viene articolato, è quello che viene taciuto, o perché non si vuol dire, o perché non si può. Gli esseri umani vivono dentro un ambiente sociale, immersi in norme e comportamenti di cui non si ritiene necessario parlare, perché considerati familiari, “normali”, innati. Ma una società totalmente trasparente a se stessa non è ancora stata creata, non si sfugge alle regole inconsce della cultura, quelle che sono state introiettate con l’educazione, la morale, la religione, per talmente tanti anni che sono diventate atti incoscienti, risposte automatiche, reazioni immediate: “naturali”.
Ogni gruppo umano, come, del resto, ogni individuo, costruisce per se stesso e per gli altri delle giustificazioni razionali a quello che fa, che, considerate insieme, formano un sistema culturale complesso, non espresso con lucidità da chi si trova al suo interno, perché non lo percepisce. Solo l’osservazione concreta e continua, prolungata, da vicino, permette di comprendere i principi impliciti che organizzano l’esperienza e la concezione della vita della gente. Bisogna annotare e valutare con attenzione, una per una, le non risposte, le indecisioni, le dimenticanze, i cambiamenti improvvisi di argomento e di tono, gli sguardi vacui e inespressivi, gli occhi vuoti che non afferrano la domanda: sono i silenzi che svelano l'anima.
Foto: alianorah... l'altra gallina
Ricostruire la memoria: ridare voce a storie negate
La memoria di una comunità è strettamente connessa alla sua identità: recuperando la propria storia la collettività può dare un senso al suo passato ma anche al suo presente, perché riesce a decifrarne le motivazioni e a uscire dal silenzio che le culture dominanti le hanno imposto. Raccontandosi, riesce anche ad acquisire quegli elementi di valore che ne accrescono l’autostima, che possono renderla forte e unita, ridarle il piacere della partecipazione, aiutarla a valorizzare la propria civiltà, progettare un futuro autonomo: in questo campo, il lavoro dell’antropologo può diventare primario. Tanto è vero che sono già più d’uno i paesi alpini che hanno assunto un etnologo come consulente permanente di sviluppo.
Per restituire parole a memorie disperse, sottratte, nascoste negli archivi dell’anima e del mondo, bisogna ricostruire storie negate e ridare voce e volto alle parole alle voci e ai volti che la storia dei ceti dominanti ha dimenticato. Un’esplorazione profonda dei molteplici universi della memoria attraverso l’evocazione delle sue tante sfaccettature, dei suoi tanti aspetti.
È necessario negare l’oblio e declinare al plurale gli spazi e le forme dell’essere al fine di non irrigidire il senso delle cose nella dispotismo di un solo racconto, di un solo senso.
Scopo del sapere antropologico è anche quello di ri-cercare e ri-memorare, trascrivere e scavare: inserire nel presente storico e nello spazio dei saperi, strumenti di analisi e profili di un’archeologia capaci di rivelare nelle stratificazioni del tempo linguaggi dispersi, soggetti senza diritto alla parola, culture che il rullo compressore della modernità (solo da ultimo) ha compresso ed emarginato: ridare voce a volti che, senza memoria, non hanno espressione.
Restituire diritto a storie di voci negate, quindi, interrompere il loro vuoto e il loro silenzio, la loro assenza dalle scene del tempo, ricostruire la memoria per far sì che ogni voce possa dir-si e, nel proprio poter dire, poter essere.
I Tatuaggi della Dea
Tutto cominciò con la ricerca commissionata dallo studio di tatuaggi Now Warriors di Piacenza: ci rendemmo conto che l'arte del tatoo è antichissima, con notevoli testimonianze storiche e archeologiche su sculture, incisioni, dipinti fin dagli albori della storia dell'umanità. Poi la casa editrice Venexia ha deciso di proseguire il progetto, dandogli una forte connotazione di genere. I Tatuaggi della Dea esamina sculture, statue stele, dipinti e manufatti di vario tipo che restituiscono le immagini di donne tatuate con i segni del sacerdozio e della leadership militare e politica. Appartengono a civiltà che spaziano dalla Cina all'Irlanda, ma che sembrano appartenere ad un'unica matrice: tribù caucasiche, matrifocali, egualitarie, in perenne conflitto con le società dell'impero: Greci e Romani. Il tatuaggio arcaico si trasforma in segno di identità e si conserva per millenni, trasformandosi in simbolo di fede alla Madonna, l'altra faccia della Dea, arrivando fino al secolo scorso: dai laboratori di tattoo della Madonna Nera di Loreto alle braccia delle donne di montagna balcaniche, greche e croate. L'archeologia e l'esame critico dei classici sono incrociate con l'antropologia storica, per dare voce a civiltà ritenute "barbariche".