Il benessere
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Gli incubi di Schopenauer
Distruggono i sogni degli economisti
di Andrea Luzzi
Abbiamo già affrontato su queste pagine il difficile parallelismo fra il benessere di un popolo ed il famigerato prodotto interno lordo. Più di quarant'anni fa, Robert Kennedy diceva pressapoco così: per troppo tempo abbiamo fatto coincidere il successo con l'accumulazione di beni materiali. Il nostro GDP (Pil per gli italiani) tiene conto della pubblicità di sigarette e delle ambulanze che intervengono negli incidenti stradali, delle serrature che rendono più sicure le nostre case e delle prigioni dove rinchiudiamo coloro che provano a violarle.
Tiene conto della distruzione dei boschi e della perdita delle nostre meraviglie naturali, del napalm e delle testate nucleari, delle auto blindate comprate dalla polizia per combattere il crimine. Eppure, questo contatore non considera la salute dei nostri figli, la qualità dell'educazione od il divertimento nei loro giochi. Non include la bellezza della poesia né la solidità dei matrimoni. Non misura né il nostro coraggio né il nostro sense of humour, né la saggezza né la compassione o la devozione al nostro paese. Misura tutto insomma, eccetto quello che rende la vita degna d'essere vissuta.
I Kennedy, in generale, ci sapevano fare con le parole; sui fatti lasciavano alquanto a desiderare. Transeat.
A quarant'anni di distanza da queste parole, viviamo in un mondo che ha fatto del prodotto interno lordo il moderno vitello d'oro di Aronne. Se domani il governo facesse una legge volta ad impedire alle casalinghe di eseguire i lavori nella propria casa, obbligandole, dietro compenso, a svolgere le proprie mansioni dalla vicina, questo potrebbe aumentare il Prodotto Interno Lordo a piacere, in base a quanto si decidesse di far pagare i mestieri di casa. Si tratterrebbe di null'altro che di una partita di giro, poiché la vicina verrebbe chiamata a svolgere gli stessi servizi in casa d'altri, ma la registrazione contabile di questo viavai di casalinghe porterebbe l'ISTAT a registrare una miracolosa crescita del Pil con vantaggi innegabili sotto molti punti di vista. Lo stesso debito pubblico, in rapporto al nuovo Pil, diverrebbe molto più sostenibile ed il reddito pro-capite dei cittadini italiani si ritroverebbe quasi raddoppiato. Vedete quanto è facile accrescere il benessere di una nazione? Oppure è solo un'illusione ottica?
L'economia ha cercato negli ultimi decenni di trovare delle scappatoie a questa deprimente incapacità del Pil di carpire il segreto della felicità. Si è cercato di creare indici che ponessero il proprio sguardo sulla capacità di spesa degli individui piuttosto che sul prodotto e che introducessero al proprio interno i servizi non inclusi nel Pil, come appunto i lavori delle casalinghe. Così nasce la Misura di Benessere Economico di Tobin (quello della Tobin Tax per intendersi). Altri hanno posto maggiormente l'attenzione sulla capacità del prodotto nazionale ad essere compatibile con l'ambiente, in grado di evitare la dispersione delle risorse naturali a disposizione e crearono l'Indicatore di Puro Progresso.
Ma tutti questi nuovi indici non si discostano molto dal loro predecessore. Tutti gli economisti del XX secolo hanno provato a quantificare monetariamente ogni aspetto della vita, dalla salute alla vedovanza, per trovare un aggregato che potesse, magicamente, definire numericamente il benessere di una società. Una volta trovatisi al termine di un vicolo cieco, alcuni studiosi hanno dato vita ad una nuova branca della scienza (non tutti concordano nel ritenere tale l'economia) a metà strada fra economia e psicologia che ha preso un nome decisamente poetico: economia della felicità. Uno dei primi dilemmi a cui si è provato a dare una risposta è il non troppo famoso paradosso di Easterlin che recita: il livello medio di felicità nei paesi sviluppati, durante tutto il '900, è rimasto lo stesso nonostante un forte aumento del reddito disponibile. Si tratta di un'affermazione che lascia stupefatti e che potremmo riassumere in un: sembra di star meglio di quando si stava peggio, ma nulla è cambiato nella sostanza. Questo perché le regole che stanno alla base della nostra felicità non seguono i libri contabili degli stati. Le ricerche di Richard Easterlin si basano sul confronto di un fantomatico indice di felicità (GNH) fra le varie nazioni studiate: 37 paesi nelle ultime ricerche datate 2010.
Simili conclusioni minano sin dalle fondamenta qualsiasi sforzo di economisti e politici a migliorare le condizioni dei propri popoli accrescendo semplicemente il reddito a loro disposizione. Ma forse la risposta al problema l'aveva ben chiara Leopardi quando ancora la scienza economica esisteva solo in pionieristici scritti di menti illuminate francesi ed inglesi. Nello Zibaldone, il poeta scriveva: "La Natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno come quel di cibarsi. Perché chi non possiede la felicità è infelice come chi non ha di che cibarsi, patisce la fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo". E continuava "Il genere umano fu e sarà sempre infelice...".
E ancor più si addice al tema ciò che appariva inoppugnabile a Schopenauer: ogni soddisfazione di un desiderio ne fa scaturire altri dieci in un continuo ed infinito declivio che conduce al dolore e alla noia.
Inutile dunque chiedere all'economia ciò che non può dare. A molti economisti e politici (a volte le due categorie si sovrappongono) consiglieremmo la rilettura de Il mondo come volontà e rappresentazione del filosofo di Danzica: un tuffo nella limitatezza della scienza economica permetterebbe a tutti di prendere decisioni meno ideologizzate. Il Pil è una divinità crudele e vendicativa; se non ci si prostra dinnanzi alle sue regole esso elargisce disoccupazione, mancanza di prospettive e povertà, come il Dio degli ebrei e dei cristiani distribuì le piaghe d'Egitto. Ma un remissivo abbandono ai suoi dettami può essere altrettanto deleterio: ne abbiamo visibili testimonianze intorno a noi ogni giorno.