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Fanno bene a bere vino portoghese?
I 200 anni della teoria di David Ricardo
di Andrea Luzzi
La teoria del vantaggio comparato di David Ricardo compie 200 anni. Ricardo, insieme ad Adam Smith, fondò i principi alla base dell’economia classica.
Figlio di immigrati portoghesi, fece un bel gruzzolo durante la battaglia di Waterloo, speculando su obbligazioni del Regno d’Inghilterra. A differenza dei Rothschild, i quali usarono il denaro derivante dalle guerre napoleoniche per costruire un impero finanziario, Ricardo si ritirò in una dimora nella campagna inglese e diede inizio alla sua opera. La teoria del vantaggio comparato è semplice ed estende un concetto già presente in Adam Smith.
Il sarto non proverà a farsi da sé delle nuove scarpe, ma le comprerà dal calzolaio. Il calzolaio, a sua volta, si approvvigionerà dal sarto qualora voglia cambiar vestito.
Allo stesso modo, un paese che può disporre di qualcosa (una commodity) ad un costo inferiore di un altro, diverrà unico produttore ed esportatore. Semplice, semplice.
Questa teoria, detta del vantaggio assoluto, costituisce uno dei possibili scenari all’interno della teoria più completa di Ricardo. Ricardo dimostra come anche un paese avente un vantaggio assoluto può trovare un beneficio relativo nello scambio di merci con produttori meno efficienti. Il mondo descritto da Ricardo permette anche ai paesi più arretrati, meno efficienti e poveri di risorse di ritagliarsi una nicchia e, eventualmente, prosperare. Una fredda teoria economica sembra individuare nell’armonia di intenti di individui, gruppi e nazioni, la speranza di una crescita economica fondata sull’interdipendenza. Le basi economiche della globalizzazione di oggigiorno sono gettate.
La prima apparizione della teoria negli scritti di Ricardo si basa su un esempio che vede contrapposti l’Inghilterra ed il Portogallo. Poche parole all’interno di un libro di quasi 450 pagine.
Liberamente tradotto, Ricardo dice:
«Il raggiungimento della felicità deriva da una migliore distribuzione del lavoro. Attraverso i legami commerciali fra nazioni, le merci vengono prodotte laddove le situazioni, il clima e le caratteristiche naturali ed artificiali offrono l’ambiente ideale, per poi venir scambiate. Immaginiamo dunque che l’Inghilterra abbia bisogno del lavoro di 100 uomini per produrre vestiti e 120 uomini per produrre un egual valore in vino. L’Inghilterra troverà più conveniente importare il vino ed esportare vestiti. Viceversa, in Portogallo 80 uomini producono vino mentre 90 uomini servono per produrre vestiti. Ecco che i due paesi possono vicendevolmente migliorare la loro condizione.»
Si noti come entrambe le produzioni siano più economiche in Portogallo. Secondo la definizione Smithiana di vantaggio, il Portogallo avrebbe tutto l’interesse a soverchiare l’Inghilterra ed esportare vino e vestiti sfruttando il proprio vantaggio competitivo. Meno intuitivamente, la forza della teoria ricardiana risiede nel fatto che ogni paese si ritroverà in una migliore posizione mettendosi in relazione con gli altri, compresa quella Nazione (l’Inghilterra) il cui costo e qualità del lavoro sembrano metterla fuori gioco. Questo avviene poiché il paese più attrezzato virerà la gran parte della propria forza lavoro sulla produzione a più alto valore aggiunto, lasciando uno spazio vuoto che il commercio internazionale potrà colmare, finché il costo all’importazione non arriverà ad annullare il vantaggio derivante dalla variazione del mix produttivo.
Quello che accadde in quegli anni ricorda quanto ora avviene all’interno dell’Unione Europea. L’Inghilterra ebbe sempre un consistente trade surplus nei confronti del Portogallo, per tutto il Diciottesimo secolo, così come la Germania presenta oggi un trade surplus nei confronti di altri paesi europei. Il deficit portoghese veniva pagato con l’oro estratto dalle miniere brasiliane, all’epoca una colonia del Portogallo.
Sfortunatamente non è mai stato possibile trovare una prova definitiva di questo beneficio bilaterale e quanto asserito da Ricardo presta il fianco a molte critiche. La relazione Inghilterra/Portogallo non avvicina nemmeno lontanamente la complessità dei rapporti fra diversi paesi. L’uso del solo fattore lavoro semplifica oltremodo la realtà e l’eventuale alto tasso di disoccupazione in un paese minerebbe alla radice tutta la costruzione ricardiano.
I lavori successivi di Sraffa, Olihn e Samuelson rispondono solo in parte alle critiche che la teoria di Ricardo si porta dietro. Nonostante i suoi duecento anni, il dibattito sul vantaggio comparato è oggi più vivo che mai. Due opposte visioni si contrappongono: il protezionismo trumpiano e la propensione al free-trading di Germania e Cina. Sotto la guida tedesca l’Europa ha stipulato trattati commerciali con i paesi più avanzati del mondo mentre si appresta a contrastare le spinte centripete di Stati Uniti e Gran Bretagna.
I legami si fanno e si disfano mentre sullo sfondo campeggiano le immagini dei grandi economisti di ieri che, benché a favore tutti del libero mercato, intravedevano le problematiche legate alle posizioni privilegiate di certuni nei confronti di altri.
Keynes, ad esempio, negli ultimi giorni della sua vita, scrisse articoli che miravano a limitare i danni provocati da deficit e surplus delle bilance commerciali troppo elevati.
David Ricardo (1772 – 1823) Foto: Moneyweek
Fra tutte le sciocchezze economiche e non a cui Trump ci ha abituati vi è un punto sul quale molti opinionisti, politici e giornali sembrano convenire. Secondo questo punto di vista, il surplus commerciale tedesco (troppe esportazioni, per capirsi) mina le fondamenta dell’Unione Europea e danneggia i paesi più deboli dal punto di vista della produttività. Si tratta di un’aperta negazione del messaggio ricardiano. Secondo ben note identità contabili, il surplus tedesco si trasforma in un eccesso di risparmio sugli investimenti. Insomma, imprese e governo risparmiano troppo. Questo in virtù, fra l’altro, di politiche salariali piuttosto aggressive sul fronte del mantenimento di un’alta competitività del lavoro nonché di un tasso di cambio chiaramente inadeguato a rappresentare la forza del modello tedesco.
La pace sociale raggiunta fra sindacati e management aziendali è invidiata in tutto il mondo e l’incapacità di altri paesi di strutturarsi efficacemente sbilancia le economie. Svezia, Svizzera, Danimarca e soprattutto Olanda presentano casi simili e a volte ancor più marcati. Dall’altro lato, Grecia, Italia, Spagna e Portogallo stentano a tenere il passo.
Quello che molti non notano, a partire da editorialisti e politici importanti italiani, è che il disequilibrio tedesco dipende soprattutto dalla sua capacità di esportare al di fuori dell’Europa. La bilancia commerciale intra-Euro della Germania si sta, seppur lentamente, normalizzando.
Un altro punto che questi signori non colgono è che la bilancia commerciale, dei pagamenti o il saldo risparmi/investimenti, sono effetti di politiche economiche diverse, non la causa del malfunzionamento di alcune di esse. Le bilance commerciali si riassestano attraverso una maggiore competitività delle economie con deficit, non con piani quinquennali decisi a tavolino miranti a limitare le libertà di alcune aziende (BMW e Mercedes) ad esportare o a obbligare alcuni governi ad aumentare il proprio deficit fiscale.
Una mancanza di comprensione del nesso causa-effetto che conferma ancor più le statistiche sulle basse capacità di analisi funzionali dei popoli e dei suoi leader, o supposti tali.
La spinta al rialzo dei salari reali tedeschi andrà a correggere gli squilibri solo se altri paesi faranno i compiti a casa, come da sempre sono abituati a fare a Berlino. Certamente il governo di Berlino potrebbe scegliere di spendere più di quanto fa attualmente, seguendo le raccomandazioni della Commissione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, ma il rischio di ottenere un effetto opposto (le imprese tedesche si avvantaggerebbero più di altre) è reale. Questo modo trumpiano di leggere l’economia internazionale si sta infilando un po’ dappertutto e tende a trovare un capro espiatorio, un redivivo Monsieur Malaussaine, fra il Reno e l’Elba. Il rischio di riprodurre situazioni simili ai protezionismi nazionali degli anni ’30 del secolo scorso è reale, anche quando queste prese di posizione sono dettate dalle migliori intenzioni.
La cupola del Bundestag di Berlino
Anche la posizione critica di Keynes degli anni ’30, culminate con la sua presa di posizione nel ’41, va letta con gli occhi di allora. Si era nel pieno di una grande crisi economica ed i paesi in surplus non contribuivano a colmare il gap creatosi fra capacità produttiva e domanda. Keynes evidenziò il problema creatosi nel rapporto fra Regno Unito e Stati Uniti, dove questi ultimi accumulavano ingenti surplus commerciali e riserve in oro. Keynes propose dunque di adottare un sistema di pagamenti che permettesse di penalizzare l’accumulo di surplus tramite alti tassi di interesse che avrebbero finanziato prestiti vantaggiosi per i paesi in debito. Gli accordi di Bretton Woods bocciarono questo piano innovativo che mirava al riequilibrio fra stati.
In Europa, l’introduzione dell’euro ha creato una regione dove gli sbilanci commerciali ristagnano per lungo tempo, non avendo la valvola di sfogo delle valute nazionali a riequilibrare la situazione.
Il rapporto fra la Germania e la periferia europea (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) rispecchia quello fra Stati Uniti e Cina. Non esiste un meccanismo automatico di riaggiustamento delle bilance commerciali
Come si può notare, la realtà risulta sempre molto più complicata delle teorie economiche fondate su vino e vestiti. L’economia è una scienza (e anche su questo molti non concordano) ancora in evoluzione, dove nuovi eventi (l’introduzione dell’euro ad esempio) cambiano le carte in tavola e rendono molti studi obsoleti. I legami fra paesi e le bilance commerciali influenzano la vita di tutti noi, comprimendo i salari reali, alzando il tasso di disoccupazione o indirizzando le scelte di politica fiscale. Coloro che ambiscono a guidare le sorti di una nazione dovrebbero quantomeno comprendere questi fenomeni e padroneggiare le basi di economia internazionale.
Ma sembra chiedere troppo.