La famiglia
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Modelli di famiglia
Una costruzione culturale tutt’altro che naturale
di Michela Zucca - SECONDA PARTE
Forse l’effetto maggiore della rivoluzione sessuale fu l’accettazione sociale del cambiamento di gran parte delle famiglie italiane:
soprattutto, a livello comportamentale e culturale, di quelle che hanno scelto la convivenza more uxorio piuttosto che il matrimonio.
Coppie di fatto e convivenze: le famiglie che sono cambiate
Per tutti gli anni ’50 il 'concubinato adulterino' fu punibile per legge: mentre bisognerà attendere il 1955 perché dalle carte d’identità sparisse l’obbligo dell’indicazione della paternità (e di figlio di NN) e, addirittura, il 1975 affinché in Italia fosse concesso anche alla madre di esercitare la patria potestà sui minori. Nell’ambito di tale riforma del diritto di famiglia, tuttavia, si evitò accuratamente di normare la convivenza.
Ma gli usi si evolvono più rapidamente delle leggi. La tendenza alla diminuzione dei matrimoni comincia negli anni ’70 ed aumenta esponenzialmente in ogni angolo d’Europa. Agli inizi degli anni Ottanta, l’1% delle coppie italiane, dal 3 al 4% delle coppie inglesi, americane o svizzere, dal 6 all’8% di quelle francesi, canadesi o tedesche, e il 15% delle coppie svedesi, non erano sposate. Quando poi si esaminano i dati assoluti classificandoli per classi di età, si scopre che, per esempio, in Svezia nel 1985 le coppie di fatto i cui membri hanno meno di trent’anni superano quelle sposate. In Francia, alla fine degli anni ’80, quasi la metà delle donne sotto i trent’anni conviveva in unione libera.
Le unioni di fatto sono più che raddoppiate dal 2008, superando il milione nel 2013-2014. In particolare, le convivenze more uxorio tra partner celibi e nubili arrivano a 641mila nel 2013-2014 e sono la componente che fa registrare gli incrementi più sostenuti, essendo cresciute quasi 10 volte rispetto al 1993-1994. I dati sulla natalità confermano che le libere unioni sono una modalità sempre più diffusa di formazione della famiglia: oltre un nato su quattro nel 2014 ha genitori non coniugati.
Il matrimonio è diventato sempre più raro ovunque dagli anni ’80 in poi nella maggior parte dei paesi occidentali. Ma prima che gli indici di nuzialità si abbassassero, avevano cominciato a salire le curve dei divorzi. Hanno iniziato a farsi strada nuovi modelli di 'coniugabilità non coabitante': in Francia per esempio, sempre in questo stesso periodo, tra le persone che hanno meno di 45 anni, un quarto degli uomini e un terzo delle donne che vivono soli dichiarano di avere una relazione sentimentale stabile.
È cresciuto in misura considerevole il numero delle famiglie monoparentali. Ma, soprattutto, si è passati da un regime monoparentale basato sulla vedovanza, per morte o di fatto (persone abbandonate dai propri partner), a un nuovo regime, nel quale divorzi e separazioni volontarie costituiscono le ragioni principali per cui un solo genitore (di solito la madre) alleva i figli. A loro bisogna aggiungere che dal 20% al 33% dei nuclei familiari è composto da single, specialmente da donne anziane che vivevano da sole.
In base allo studio promosso dall’ISTAT nel 1998 su quasi 60 000 persone, si è visto che nei 10 anni trascorsi dal 1988 al 1998 il numero dei nuclei familiari, in Italia, è aumentato, ma parallelamente si è ridotto il numero dei componenti, e ciò vuol dire che è diminuito il numero dei figli. Le famiglie sono passate da 19 milioni e 872 mila a 21 milioni e 211 mila, ma il numero dei componenti nel 1998 era mediamente di 2,7 per famiglia, contro il dato di 2,9 del 1988, oggi 2,4. Più del 71% delle famiglie non supera, in Italia, i 3 componenti.
Le famiglie composte da 5 o più persone sono solo il 5,3% e quelle in cui vivono 4 persone sono il 21% circa. Aumentano le persone che vivono sole. Nel Meridione la natalità si mantiene, è più probabile trovare ancora grandi agglomerati dentro la stessa famiglia, mentre la Liguria, il Piemonte e la Valle d’Aosta sono le regioni con il più alto numero di coppie senza figli. Le convivenze sono 192 mila. Le persone che vivono sole, in Italia, sono all’incirca 4 milioni e 500 mila, cioè l’8% della popolazione. Negli ultimi anni però questa percentuale è aumentato e sta ancora aumentando. I single sono soprattutto nel Centro e nel Nord Italia: guidano questa classifica Val d’Aosta e Liguria. Fino ai 44 anni circa il maschio, più della femmina, preferisce vivere da non sposato, mentre, mano a mano che l’età avanza, aumenta il numero delle donne sole (ricordiamo che gli uomini muoiono prima).
Anche le coppie di fatto sono in aumento costante: nel ’94-’95 erano l’1,8%; nel 2002-2003 costituiscono il 3,9% del totale. Di queste il 46,7% è costituito da coppie in cui almeno un componente ha già vissuto un’esperienza matrimoniale conclusasi con una separazione o un divorzio. È formato da coppie di celibi e nubili il 47,2%. Le coppie di fatto sono soprattutto al Nord: rappresentano il 5,4% delle coppie nel Nord-Ovest e il 6,2% nel Nord-Est. Al Centro sono il 3,5% del totale. L'1,7% nel Sud e nelle Isole.
In Italia ogni anno si celebrano circa 200mila matrimoni, numero in costante diminuzione dal 1972, anno nel quale sono stati celebrati 419 mila matrimoni. Ovvero sono meno della metà di cinquant’anni fa mentre la popolazione è aumentata di un terzo. Un lieve recupero era stato registrato nei primi anni ’90. Sono sempre più numerose le coppie (oltre 500mila) che scelgono di formare una famiglia al di fuori del vincolo del matrimonio.
In questi anni sono aumentati in maniera esponenziale i divorzi e le separazioni. Secondo alcuni studi fra 5/6 anni in Italia le convivenze supereranno i matrimoni. Negli USA questo fenomeno è già reale e i matrimoni sono scesi al 49% rispetto al totale delle unioni e in Gran Bretagna i conviventi superano gli sposati. A livello internazionale l’Italia risulta essere sempre uno dei paesi con la nuzialità più bassa d’Europa. Infatti solo Portogallo (3,1 per mille), Lussemburgo e Slovenia (3,2 per mille), hanno un quoziente di nuzialità inferiore a quello italiano.
Le separazioni legali passano da 91.706 del 2015 a 99.611 del 2016.
Dal punto di vista antropologico, chi decide per la convivenza in Italia? Sono soprattutto giovani, con un livello medio-alto di educazione, arrivati, non senza fatica, a cominciare la propria professionale intorno ai 30 anni, di reddito medio-basso. Le quarantenni nate alla fine degli anni Sessanta hanno scelto la convivenza in un caso su quattro, chi è nata nella prima metà degli anni Settanta lo ha fatto in un caso su tre, e così via, con percentuali tre volte più basse al Sud, dove convivere resta un escamotage per rinviare le spese della festa di nozze. Se non si modifica il trend, comunque, queste percentuali potrebbe raddoppiare in pochi anni.
Queste coppie, rispetto a quelle regolarmente sposate, sono assai più paritarie del passato per quanto riguarda la condivisione dei lavori domestici. L’uomo sa bene che, se non soddisfa le aspettative della sua compagna, può piantarlo senza tante difficoltà. La caratteristica del rapporto è un confronto continuo che deve confermare o smentire la scelta iniziale. Dallo studio Istat emerge che accanto alle convivenze prematrimoniali cresce l’accettazione sociale della convivenza come modalità di formazione della famiglia alternativa al matrimonio. Non sembra soltanto un fatto di costume: si tratta di una 'strategia adattativa' a precarietà, mobilità, incertezza sempre crescenti. Lo studio rileva inoltre anche il fenomeno dei figli nati fuori dal matrimonio, attualmente intorno al 15%, pari a circa 80mila bambini l’anno, quasi il doppio rispetto a dieci anni fa. Anche rispetto a loro, cresce l’accettazione sociale, anche se non si è ancora riusciti a raggiungere la parità dei diritti fra figli 'legittimi' e figli 'naturali', nemmeno quando vengono riconosciuti dai genitori.
Un buon matrimonio: aspettative di mobilità sociale e possibilità di divorzio
Comunque si guardino le cose, il matrimonio rimane ancora, oggi, la scelta di convivenza (e di famiglia) che fa la maggior parte delle coppie. Rispetto al passato però ci si sposa molto più tardi: le prime nozze interessano sposi di circa 32 anni e spose di quasi 30. Dal punto di vista antropologico, ciò vuol dire che aumenta la capacità di scelta femminile. Ci si sposa più al Sud e nelle isole (4,9 e 4,6 matrimoni ogni 1000 abitanti, contro i 3,8 del Nord), più in Campania e meno in Emilia Romagna. Aumentano i matrimoni civili: oggi un matrimonio su 3 è celebrato dinanzi al sindaco, mentre solo fino a 10 anni fa l’incidenza dei matrimoni civili non arrivava al 20%. Il restante 67,6% è costituito da matrimoni religiosi. In particolare sono solo civili il 43% dei matrimoni celebrati al Nord, il 35% di quelli al Centro e il 18% di quelli registrati al Sud. Le percentuali più elevate di matrimoni civili si registrano a Bolzano, Siena e Firenze. Parte dell’aumento dei matrimoni civili è anche da attribuire alla crescente diffusione di matrimoni misti e seconde nozze. Attualmente in quasi il 10% dei matrimoni uno degli sposi è alla sua seconda esperienza.
Tropea , Calabria , matrimonio tra un ragazzo del sud Italia e una cilena
Nel 12,5% delle celebrazioni uno degli sposi è straniero: i matrimoni misti sono più diffusi al Nord e al Centro, di proporzioni più contenute al Sud e nelle isole. Gli uomini che scelgono una moglie straniera sono molto più numerosi rispetto alle donne che scelgono un marito straniero. Gli sposi italiani che scelgono una straniera puntano nel 49% dei casi su donne dell’Europa centro orientale (rumene, ucraine, polacche, russe e albanesi) e nel 21% su donne dell’America centro meridionale (brasiliane, ecuadoriane e cubane), mentre le spose italiane che scelgono un cittadino straniero puntano nel 23% dei casi su uomini nordafricani (soprattutto provenienti dal Marocco e dalla Tunisia) o su cittadini dell’Europa centro orientale (albanesi e rumeni). Sul fronte del regime patrimoniale scelto dagli sposi prevale la separazione dei beni (56%), con punte del 62% al Nord e del 58,6% al Centro. Al Sud prevale ancora la comunione dei beni.
Malgrado i cambiamenti degli ultimi anni, l’immaginario femminile riguardo il matrimonio è rimasto legato ad aspettative e sistemi simbolici che risalgono al secolo scorso, e forse sono ancora più antichi. Con la crisi, non si sono dissolti ma anzi, si sono rafforzati. Perché il matrimonio è ancora e tuttora considerato, dalla stragrande maggioranza delle famiglie e da gran parte delle donne, come vettore fondamentale di mobilità sociale. Ovvero una donna e la sua famiglia ritengono che un 'buon matrimonio' possa effettivamente funzionare e far fare alla ragazza (e possibilmente anche ai suoi genitori…) l’agognato salto di classe che non si riesce ad ottenere né con lo studio né con il lavoro.
Ciò perché l’Italia, rispetto ad altri paesi europei, conserva un tasso di mobilità sociale estremamente basso: ovvero, malgrado gli sforzi, in termini di preparazione professionale, ciò che conta a livello professionale non è la formazione o il titolo di studio ma l’appartenenza di classe e a gruppi organizzati che possano promuovere una carriera (per esempio, un partito politico) accessibili comunque soltanto a chi non parte da zero. Il nostro paese si trova ai vertici delle classifiche delle nazioni sviluppate per l’esistenza di barriere di classe e mancanza di mobilità sociale
In queste condizioni, che non sono cambiate dagli anni ’50 in poi (anzi se possibile sono pure peggiorate in tempi di crisi), molte ragazze cercano, ancora una volta, di 'prendere la scorciatoia' e di riuscire a concludere 'un buon matrimonio'. Nella maggior parte dei casi però, si tratta di pie illusioni: come un secolo fa, ci si sposa quasi esclusivamente fra omogami, non solo, c’è anche la possibilità di peggiorare di status.
Nell’80% dei casi i coniugi provengono dalla stessa regione. In generale il 60% degli sposi ha un analogo titolo di studio, nel 19% dei casi è la moglie ad essere più istruita. Ma esperienza di lavoro, diploma e laurea sul mercato matrimoniale contano poco: di solito si sposa un uomo della stessa condizione sociale del padre. Più del 20% delle donne peggiora la propria situazione rispetto alla classe di origine. Riesce a salire di status attraverso il matrimonio poco più di una donna su tre.
Confrontando a livello statistico le possibilità femminili di crescita socio-economica, si arriva ad una scoperta strabiliante: dopo tutte le fatiche fatte per studiare e cercare di costruirsi una carriera, ci si alza di ceto sociale più attraverso il matrimonio che per mezzo del lavoro, anche qualificato. Ovvero: fare un buon matrimonio non solo conta, conta ancora e conta di più che in passato, ma è decisamente più facile trovarsi un buon partito che un buon lavoro. Alla faccia delle pari opportunità e del femminismo.
Certo non è facile: bisogna programmare per la figlia la frequentazione degli ambienti giusti, mandandola a scuola dove potrà cominciare a farsi delle amicizie utili per la scalata sociale. È necessaria la collaborazione attiva della ragazza, che deve assecondare il lavoro dei genitori. Bisogna spendere molti soldi e 'fare sacrifici', perché se non si riesce a 'stare al passo' si viene marginalizzate e quindi non si possono raggiungere gli obiettivi. Si deve essere pronte a buttar giù qualche umiliazione da parte dei futuri suoceri e dell’entourage parentale del fidanzato: di solito, il salto di classe non è effettivo se non alla seconda generazione, e alla prima viene sempre rinfacciato e fatto pesare in un modo o nell’altro. Ma si tratta di un investimento che, allo stato attuale delle cose, può valere la pena fare: in ultima analisi costa meno e riesce di più – in termini di probabilità statistica - di una carriera universitaria.
La consapevolezza dell’importanza di convolare a giuste nozze ha fatto cambiare gli usi relativi al matrimonio nel Nord Italia. Fino a qualche decennio fa, il denaro destinato alla festa di nozze e a tutto ciò che le ruotava intorno, specie nel caso di famiglie operaie o paesane, era abbastanza limitato: a differenza di quanto avveniva nel Sud, dove la rappresentatività sociale era considerata della massima importanza e nel caso di basse disponibilità finanziarie i genitori degli sposi non esitavano ad indebitarsi per 'apparire' e 'fare bella figura'. Oggi si impiegano quantità consistenti di risorse per organizzare cerimonie ben al di sopra delle disponibilità, senza esitare a rivolgersi al credito al consumo pur di non sfigurare di fronte a parenti ed amici. La base patrimoniale dell’antico matrimonio contadino è stata sostituita da immagini di opulenza e di sfarzo considerate indispensabili pur di credere (e di far credere) di appartenere a ceti sociali che non hanno problemi di soldi.
Oltre tutto adesso il matrimonio non è più un’unione inscindibile: si può anche divorziare. Non solo: alzandosi di status, i rischi aumentano, perché separarsi costa, e più ci si alza di livello sociale più aumentano le rotture. Non basta: a differenza di una volta, quando un marito ricco costituiva un’assicurazione sulla vita, nel senso che se anche aveva altre relazioni, i figli dell’amante non potevano ereditare, non poteva riconoscerli né essere costretto a prove genetiche di paternità e comunque l’amante era sempre un legame di serie B, oggi un uomo può piantare la moglie. E dato che le qualità più richieste dai maschi (non dalle loro famiglie: ma oggi sono emancipati anche loro. La libertà dalla volontà dei genitori è un vantaggio in gioventù, uno svantaggio dalla mezza età in poi), specie da quelli maturi, soprattutto da quelli dotati di buon potere economico, sono bellezza, giovinezza, disponibilità sessuale e capacità di procreare, possono sempre trovarsi una ragazza e mollare la legittima consorte.
D’altra parte, l’unione di un uomo anziano dotato di potere e soldi (il maschio alfa del Paleolitico) con una fanciulla è socialmente approvata, ma non è lo stesso quando la donna sceglie un compagno più giovane. Il divorzio dei cinquantenni e dei sessantenni sono in continua crescita. Negli ultimi anni poi, sono arrivate delle competitors formidabili, le ragazze dell’Est, alte bionde con gli occhi azzurri: il sogno dei maschi latini vecchiotti stempiati e panciuti.
Un matrimonio che può far salire di ceto la sposa necessita di grandi capacità di negoziazione e sopportazione, non solo da parte della donna ma anche della sua famiglia, e può essere rischioso perché dopo il divorzio, una ex moglie, specialmente se non è più giovane, precipita di status e di considerazione sociale. Gli alimenti, che non le sono più dovuti automaticamente come prima (si pensa che una donna giovane può tornare a lavorare…), e possono non bastare, perché, malgrado le rassicurazioni della legge, raramente sono sufficienti per assicurarle il tenore di vita a cui era abituata da coniugata. Si tratta di un’azione da ben ponderare…