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Il cinema è un cappello a cilindro

Per scoprire un universo dai confini immaginifici

di Ivan Mambretti

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foto: Thor (www.theverge.com)

I vostri avi la chiamavano magìa e voi la chiamate scienza. Io provengo da un luogo dove sono la stessa cosa.
(dal film Thor)

La magìa, fenomeno ancestrale che si riverbera attraverso i millenni sul nostro tempo, appartiene alla sfera del mistero, della paura, delle cose incredibili. Ma anche alla voglia dell’uomo di stupire, stupirsi e stupirci. Non ci spiegheremmo altrimenti le ragioni per cui la cultura, la letteratura, l’arte e la storia ne siano pervase. I suoi strumenti topici e tipici sono la bacchetta magica e le metamorfosi, la palla di cristallo e i tarocchi, oroscopi e amuleti, elisir d’amore e filtri malefici, la magìa nera e i riti vudù. Maghi per antonomasia sono il Merlino delle saghe bretoni - quello di re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda che ha come collega in gonnella la fata Morgana - per venire al più moderno Harry Potter, l’occhialuto allievo della scuola di stregoneria britannica generato dalla penna di J. K. Rowling. Assai popolare la fata Turchina che incontra e aiuta Pinocchio. Ancora prima, hanno una collocazione di totale rispetto nella memoria collettiva le sirene che col loro canto ammaliarono Ulisse, nonché la love story fra Ulisse stesso e la maga Circe che mutò i suoi compagni in tanti piccoli porcellini.
Ma sono motivi di ‘incantamento’ anche l’intensità di uno sguardo, il feeling che scaturisce da un incontro, l’attimo fuggente che ti cambia il destino, il gioco delle metafore, la fantasia che si spalma sui ricordi e li abbellisce. Punti di vista molteplici e differenti di cui ha goduto e gode tuttora anche il cinema, che rovista volentieri in questo universo dai confini indefiniti e lo sfrutta soprattutto nel genere fantasy, quasi sempre rivolgendosi a forme narrative di grande suggestione (vedasi la trilogia del Signore degli Anelli dallo strepitoso successo planetario).

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foto: Viaggio sulla Luna di Georges Méliès

Tutto cominciò da Méliès

Che il cinema sia esso stesso inequivocabile manifestazione della magìa di cui è capace l'uomo è dimostrato dalle sue origini, riconducibili a quell’antenata del proiettore chiamata, guarda caso, ‘lanterna magica’ (siamo verso la metà del Seicento!). Uno scatolone che al posto dell'obiettivo aveva vetri dipinti e candele per dare luce in una stanza buia. Trasportato in spalla dai pionieri di villaggio in villaggio, incantava gli spettatori con raffigurazioni ora reali ora fantastiche emanate da un lenzuolo o da una parete bianca.
Nel primissimo Novecento i palcoscenici europei fecero da cornice alle produzioni di Georges Méliès. Più mago che cineasta, Méliès comprese subito le potenzialità dell'invenzione dei Lumière e si mise a lavorare sui trucchi inventando il genere fantascientifico, ispirato spesso ai romanzi del connazionale Jules Verne (un esempio su tutti Le Voyage dans la Lune, del 1902, ricordato per la navicella spaziale che si conficca nell’occhio della luna). I suoi film, lontani dal pragmatismo documentaristico dei Lumière, erano simili agli spettacoli ambulanti dove gli imbonitori facevano sparire e riapparire oggetti e persone. Obiettivo prioritario: sbalordire il pubblico, lasciarlo a bocca aperta, magari spaventarlo. Meglio ancora, divertirlo spaventandolo. Méliès fece diventare la magìa ingrediente essenziale di tutte le storie di intrigo e di inganno mirate a trasmettere allo spettatore la sensazione che l'impossibile fosse possibile. A lui sono debitori quei maestri del cinema che hanno fatto abbondante uso di elementi magici più o meno palesi per condire le loro trame. Qualche nome? Il cinema circense di Federico Fellini, i tormenti esistenziali di Ingmar Bergman, le scorribande metafisiche di Stanley Kubrick (ieri) e di Christopher Nolan (oggi). Tutti maestri di un cinema adulto, anche se il destinatario numero uno del filone fantastico resta il pubblico infantile. A prova di ciò, due titoli: Il mago di Oz (1939) e Mary Poppins (1964).

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foto: Marry Poppins (joledingham.ca)

Fra uomini di latta e castelli incantati

Il mago di Oz è il primo esempio cinematografico che fa della magìa un uso pedagogico: la piccola Dorothy, catapultata da un turbine nel fantasmagorico mondo di Oz, si vede circondata dalle persone che lei conosce nella vita normale ma che riscopre buffamente trasformate. Qui il mago Morgan è in lotta perenne con la strega cattiva, cioè l'odiosa vicina di casa della fanciulla. Fra illusioni, disillusioni e delusioni, la morale della favola è semplice: non c'è posto più confortevole e incantevole che la propria casa, dove alla fine Dorothy fa ritorno.

Mary Poppins, bambinaia calata dal cielo con un ombrellino paracadute, coccola i pargoletti di una famiglia della borghesia londinese e risolve piccoli problemi domestici. Alla fortuna della pellicola contribuirono la verve di Julie Andrews, gli intermezzi d'animazione e canzoncine ancor oggi popolari come «Cam camin spazzacamin…», «Basta un poco di zucchero e la pillola va giù», «Supercalifragilistic...» (è da poco uscito un remake, ma la nuova tata, la pur brava Emily Hunt, non possiede il carisma della Andrews).

Il volto (1958) di Bergman racconta di un illusionista che accetta di esibirsi davanti ai rappresentanti dell'ordine costituito: beffato da costoro, per vendicarsi finge di morire, ma poi confessa il trucco e si prende una piccola rivincita dimostrando di averli imbrogliati. Film in cui si scontrano arte e politica, emozione e razionalità, malizia e ingenuità. Sempre negli anni Cinquanta troviamo il musical Brigadoon, dal nome del villaggio fantasma che appare fra le nebbie di brulli paesaggi scozzesi, e l’ironico Il mago Houdini, film su un personaggio realmente vissuto, capace di ardite imprese e fughe rocambolesche. Facciamo un salto di vent'anni per menzionare anche Il mago di Lublino, donnaiolo ebreo che nutre il sogno di volare nei cieli della sua Polonia.

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foto: The Prestige (www.theaceblackblog.com)

Non privi di analogie sono The Illusionist e The Prestige, entrambi del 2006, vagamente mitteleuropei. Nel primo, un prestigiatore e un ispettore di polizia si sfidano sulla linea di confine fra realtà e magìa, dove si confondono l’onesta e la corruzione, l’amore e la devozione, persino la vita e la morte. In The Prestige, che porta la firma del grande Christopher Nolan, due giovani 'apprendisti stregoni' vengono istruiti da un ingegnere-mago. Ma quando durante un numero qualcosa va storto, i due si incolpano a vicenda. Inizia così una crudele sfida dove la rivalità degenera in ossessione (The Prestige, che ci parla del teletrasporto della materia, rimanda in qualche modo a un cult come La mosca di Cronenberg). I due maghi amano a tal punto il loro mestiere da convincersi che il sacrificio sia il prezzo da pagare per la riuscita dello spettacolo.

Hayao Miyazaki è un apprezzatissimo maestro del cinema di animazione, così stimato da essere definito il Walt Disney d’oriente. Il cartoonist giapponese riesce infatti a descrivere e a mixare lo spirituale, il lirico, il vero, il fantastico, l'umano. Tutto insomma. Fondamentali per capire la sua poetica sono almeno La città incantata (2001) e Il castello errante di Howl (2004) che, estranei ai condizionamenti ideologici, sanno essere pellicole promotrici di pace e di sano intrattenimento, col valore aggiunto di essere preziosi ammonimenti su quanto siano indispensabili le buone azioni quotidiane e le oneste relazioni interpersonali. Molto improprio credere che il destinatario del cinema di Miyazaki sia il solo pubblico giovane.

 

Woody Allen nell’età del jazz

Torniamo in America per trovare un altro incontrastato mago dello schermo: Woody Allen. La sua inclinazione a incantarci si palesa innanzitutto in La rosa purpurea del Cairo (1985) dove il regista ebreo-newyorkese sfoggia tutte le sue qualità immaginifiche per raccontare di una ragazza impoverita dalla grande depressione che si consola nel buio di una sala cinematografica. Proprio qui avviene il miracolo: il suo eroe in bianco e nero esce dallo schermo, attraversa la platea e si avvicina a lei, che va in estasi. In Radio Days l’incanto è invece affidato alle più popolari canzoni del passato: September Song, Begin the Beguine, In the Mood, Carioca...

In Scoop (2006) Woody Allen, mago da strapazzo, rivela la sua indole di attore-autore cabarettista. Fioccano infatti battute e scene esilaranti anche su improbabili richiami dell’aldilà. Midnight in Paris (2011) è invece un inno alla nostalgia di epoche non vissute ma ugualmente conosciute dalle testimonianze di genitori e nonni. Il film è la storia di un uomo che, alle soglie del matrimonio nella Parigi letteraria che ha sempre amato, vede le sue crisi esistenziali esplodere per colpa di un'altra donna. Allen torna a ragionare con lucidità sul nostro essere sospesi fra memoria e illusione: da un lato esalta la fuga nel sogno quale nutrimento per la vita, dall'altro rimarca l'ineluttabilità del confronto con le noie del presente che si è costretti ad accettare.

In Magic in the Moonlight (2014), ennesimo film ambientato nell'età del jazz, racconta una storia d'amore con tinte crepuscolari. Un illusionista che indaga sui falsi colleghi viene assunto per smascherare una giovane sensitiva sospetta. Il fascino di lei, però, lo indurrà a mettere in discussione le proprie certezze. Cercava la magìa, la trova nell'amore. In buona sostanza Allen ipotizza che il cinema sia un’arte ingannatrice ma anche una risorsa per affrontare le umane contraddizioni. Se nel cinema di Woody Allen abbonda il ricorso alla psicanalisi, non mancano mai esempi di filosofia spicciola, che si basano sul famoso interrogativo di Calderon de la Barca: la vita è sogno?

Regista super-immaginifico è Terry Gilliam, che alle tenere elucubrazioni di Woody Allen contrappone un’iperbolica esuberanza visionaria. Basta citare Il Barone di Munchausen (1988) o Parnassus (2009) per rendersi conto di come il suo cinema sia una proliferazione di effetti, caricature, sagome risibili, situazioni sconnesse, trame assurde, storie borderline. I suoi personaggi sono simili a pupazzi. Sono figure ora stilizzate ora gonfiate che si agitano in territori lunari, selvaggi, dai contorni mutevoli. Sogno o realtà? O sogno e realtà? Gilliam non fa mistero di imitare il linguaggio e le logiche del cinema d’animazione.

Merita un cenno il recente Now you see me, che percorre l’inusuale strada dell'heist-movie (o film di rapina). I protagonisti sono una gang di giovani illusionisti che si fanno chiamare «I Quattro Cavalieri» e tengono strabilianti spettacoli a Las Vegas, come quello in cui, senza muoversi dal palcoscenico, rapinano una banca di Parigi per poi ricompensare il pubblico con una pioggia di banconote. L’FBI indaga ma non raccoglie prove per incolpare i novelli Robin Hood che rubano ai ricchi per dare ai poveri: è il loro modo per combattere le perverse degenerazioni del capitalismo. Dunque un film scopertamente socio-politico. Il regista, Louis Leterrier, escogita il trucco dei trucchi: manipolare e distrarre l’attenzione del pubblico, sia quello finto in pellicola sia quello reale seduto in sala, cioè noi spettatori.

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foto: Miracolo a Milano (www.ilpopoloveneto.it)

Stregoni all’italiana: da De Sica a Fellini

In Miracolo a Milano (1952) di Vittorio De Sica con sceneggiatura di Cesare Zavattini, un orfanello buono e generoso entra a far parte della comunità dei barboni che vivono in baracche di periferia. Un bel giorno da quel brullo terreno sbuca il petrolio e i ricchi si fanno avanti con pretese di sfruttamento. Sarà l’orfanello a guidare la pacifica protesta dei suoi amici baraccati, che raggiungono Piazza del Duomo e da qui, a cavallo di scope, volano via liberi verso un mondo dove «buon giorno vuol dire veramente buon giorno». De Sica tenta di superare le asperità del neorealismo traghettando il suo cinema verso la fiaba ideologica: i ricchi vivono nel lusso e sono aggrappati ai beni materiali, i poveri possono fantasticare e volare in cielo. Miracolo a Milano, chiuso in una confezione artigianale un po’ grossolana, continua ad avere qualcosa da dire ancora oggi, periodo di crisi continua, di ingiustizie sociali, di povertà dilagante.

Ad avventurarsi in un film sospeso fra magìa e superstizione ancora prima del satanico Polanski di Rosemarie’s Baby e dell’invasione di esorcisti, è Brunello Rondi, che gira presso Matera un pregevole horror all’italiana: Il demonio (1963). Racconta la storia di Purificata (nome non casuale), figlia di contadini, sensuale, inquieta e prigioniera di un microcosmo mai uscito dal Medioevo dove la bellezza è peccato in quanto strumento delle tentazioni del diavolo. Un amore tormentato la porterà a perdere la testa e la trasformerà in una specie di strega posseduta e portatrice di jella, vittima dei pregiudizi della sua gente. Senza effetti speciali e senza troppo cedere al trash (anche perché non ancora di moda), Rondi costruisce una storia del profondo sud rimasto immerso nella cultura contadina in un’Italia che pure è in pieno boom economico. Il film sfrutta al meglio il paesaggio lucano, che sembra la location ideale per racconti di spiriti e demoni (per chi non lo sapesse, Brunello Rondi divideva i natali tiranesi con suo fratello, il critico cinematografico Gian Luigi).

Pasolini, regista diversamente mistico, disturbante, acuto osservatore e studioso della società a lui contemporanea, non usa esplicitamente l’elemento magico se non nel capitolo Che cosa sono le nuvole? Compreso nel film a episodi Capriccio all’italiana (1967). Qui il monnezzaro Domenico Modugno getta le due marionette Totò e Ninetto Davoli in una discarica, dove rimangono incantate a guardare le nuvole e la «straziante, meravigliosa bellezza del creato»

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foto: Giulietta Masina - Le notti di Cabiria

Istrionico, fattucchiere, chiaroveggente, immaginifico, bugiardo. Così fu Federico Fellini, a detta degli stessi amici. Tutto il suo cinema è magìa, anche perché le prime forme di magìa lui, come tanti registi delle vecchie generazioni, le ha assorbite dal circo, sfavillante di luci e colori, popolato di girovaghi, nani e ballerine, animato da giocolieri e trapezisti, mangiatori di spade e di fuoco, pagliacci e strimpellatori, uomini in frac che estraggono il coniglio bianco dal cappello a cilindro. In Le notti di Cabiria l'ingenuità della fragile prostituta si rivela nella scena dell'ipnotizzatore che la convince a salire sul palco tra i lazzi e le risate del pubblico romano. È una sequenza dove si mescolano comicità e compassione per quella povera donnina, preda del cinico animale d'avanspettacolo che ne recupera i sogni infantili al solo scopo di metterla alla berlina. E questo è nulla a confronto del finale, quando Cabiria scopre che il finto innamorato la vuole rapinare. «Non voglio più vivere», ripete allora, sola e abbandonata nel bosco. Ma a restituirle il sorriso sarà il casuale incontro con un gruppo di giovani festaioli, allegri, scanzonati, camuffati, che cantano e danzano in compagnia. Il paradosso della malinconia del clown chiude e chiosa magicamente anche quell’indiscusso pezzo da antologia che è la passerella finale di Otto e mezzo.

Anita Ekberg

foto: Anita Ekberg - Intervista

Il mago di Cinecittà ci offre una sequenza particolarmente ispirata in uno dei suoi ultimi film, Intervista, dove Marcello Mastroianni e Anita Ekberg si rivedono a distanza di trent’anni su un lenzuolo adattato a schermo che proietta la loro immersione notturna nella fontana di Trevi, simbolo di italici fasti mai più ripetuti. L’Anitona della Dolce vita, invecchiata e imbolsita, si terge una lacrimuccia. Mastroianni fatica a fare il duro anche se avvolto nel mantello nero di Mandrake. Quale sottofondo per quel lenzuolo che improvvisamente si è animato di remote immagini, Nicola Piovani, erede di Nino Rota, ha composto una sommessa musica per carillon. Momento elegiaco sintetizzabile in una parola magica assai cara alla poetica felliniana: amarcord.