La famiglia

L'occhio indagatore della cinepresa

Fra le pareti domestiche

di Ivan Mambretti -  PRIMA PARTE

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Anna Karenina, foto: Grazia

Le famiglie felici si somigliano tutte.
Le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo.
Anna Karenina di L. Tolstoj

La famiglia tradizionale è in crisi, il suo declino preoccupa. Le statistiche parlano chiaro: diminuiscono matrimoni e nascite, aumentano instabilità coniugale e divorzi, inquietano le unione atipiche che invocano i diritti civili, cresce il numero delle famiglie allargate. Anche quelle più 'normali' sono in difficoltà, specie per i condizionamenti esterni, per una società distratta che non le aiuta, per una umanità logorata da problemi che non sono solo politico-economici ma anche educativi, etici, esistenziali. Le relazioni che si instaurano sono fugaci, si comunica poco anche a tavola. Alle sane e intime emozioni si preferiscono emozioni forti: brivido, trasgressioni, caccia al proibito, esperienze estreme. Cambiamenti ai quali non sono estranee le odierne tecnologie, i fenomeni chiamati social e la globalizzazione, che hanno rimesso in discussione i valori e gli stili di vita del vecchio sistema.

Dopo i tempi poveri ma felici del patriarcato, dell’operosa civiltà contadina e della speranza nella resurrezione, la famiglia brancola oggi all’inseguimento di ripari e certezze contro il mito di un nuovo che avanza a tutti i costi facendola sentire inadeguata. Scenari recepiti in tutti i loro risvolti anche dalle arti moderne. Una è il cinema, che dal dopoguerra ai giorni nostri non ha mai smesso di trattare l’argomento nei suoi aspetti più articolati e complessi.

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Il ferroviere di Pietro Germi 

Il dopoguerra in bianco e nero

Posto che solo prima del Sessantotto era possibile realizzare film su crisi familiari che non fossero provocate da agenti esterni (tipo i fermenti sociali) ma dalle dinamiche stesse dei rapporti interni, troviamo nella cinematografia in bianco e nero degli anni Cinquanta due esempi caserecci: La famiglia Passaguai e Il ferroviere. Il primo, tutto sulle spalle di Aldo Fabrizi nella triplice veste di regista-protagonista-sceneggiatore, ci offre il ritratto ironico e chiassoso del weekend al lido di Ostia di una famigliola della piccola borghesia romana, alle prese con bagagli, taxi, bus e le prime avvisaglie di un benessere che si sta facendo strada tra le macerie lasciate dalla guerra. Con l’altra pellicola, Pietro Germi 'ferroviere' (regista e interprete) ci ricorda come il glorioso neorealismo post-bellico abbia ormai esaurito energie e ragion d’essere. Le ferrovie assurgono a moderni segni del brusco passaggio dall’Italia arcaica e tradizionalista a quella moderna e industriale, la cui crescita è insidiata dai primi mali sociali come il fumo e soprattutto l’alcol. In due parole, la trama: da quando lo sfortunato ferroviere ha investito col treno un probabile suicida, la sua famiglia va in fibrillazione. Lui non si dà più pace e morirà di crepacuore sdraiato sul letto di casa con la vecchia chitarra sul petto, strimpellata per l’ultima volta.

In Pranzo di nozze, dello statunitense Richard Brooks, le modeste condizioni economiche rendono irrealizzabile il sogno di una madre: quello di allestire un degno banchetto per la figlia promessa a un giovanotto bravo ma squattrinato.

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Viaggio a Tokyo

Viaggio a Tokyo, di Yasujiro Ozu, è un dramma dell’alienazione. Due anziani coniugi di campagna partono alla volta di Tokyo per far visita ai figli che nel frattempo hanno messo su famiglia. Ma notano con sorpresa che i figli li trascurano. Sì, perché nel Giappone che si sta rialzando dopo la bomba atomica, non c’è tempo per coltivare gli affetti familiari: loro devono lavorare e costruire, visto che anche in terra nipponica la fanno da padroni insicurezza economica, incomunicabilità generazionale, disagi tipici di una società che si va urbanizzando. Unica a mostrare comprensione per i due vecchi è una vedova, che dalla vita ha avuto poco e che forse proprio per questo, ora, riesce a regalare un sorriso ai disillusi ospiti. Facciamo un salto nel terzo millennio per segnalare un altro film giapponese, stavolta a colori: Un affare di famiglia (2018). Qui, in un umile appartamento, una piccola comunità sembra unita da vincoli parentali, ma non è così. Nonostante la povertà e la mancanza di legami di sangue, quelle persone accolgono una bambina trovata per strada sola e abbandonata. E diventano per lei una vera famiglia, con tanto di nonna simbolo di saggezza.

 

Affreschi di storia d'Italia

Anche se il primo cantore della decadenza familiare è stato l’americano Orson Welles con L’orgoglio degli Amberson (1942), in cui una vedova muore di dispiacere perché il figlio non accetta che lei si risposi, preferiamo considerare maestro del genere il nostro Luchino Visconti, regista milanese colto e raffinato che ha saputo impreziosire la sua opera strutturandola come la narrativa europea classica (Mann, Dostojevski, D’Annunzio…), non senza ardite incursioni nella tragedia greca e nel melodramma.

Rocco e i suoi fratelli (1960), film dagli echi biblici, ritrae una famiglia di immigrati lucani a Milano ai tempi del boom, con la tribolata madre che fa di tutto per tenere uniti i cinque figli mandati allo sbaraglio dai tentacoli della città, che pure non è ancora la metropoli all’avanguardia di oggigiorno, ma quella delle case a ringhiera, dei cortili, dei ballatoi, dello sferragliare del tram nella nebbia. Ed è descritta come un habitat ostile e popolato di gente già allora viscida e corrotta. Con un abile balzo all’indietro, Visconti ci immerge poi nella storia dell’Ottocento con Il Gattopardo (1963), sullo sfondo della delicata fase dello sbarco dei Mille in Sicilia che anticipa il passaggio di potere dai Borboni ai Savoia. Passaggio che il nobile e nostalgico principe di Salina non sopporta. Memorabile il lungo ballo finale che si tiene nella sontuosa residenza di famiglia dove tutto odora di un passato che non può più tornare. O che forse, semplicemente, si trasforma, secondo la celebre sentenza del garibaldino Tancredi, nipote del principe: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». Visconti ci angoscia con più terribili drammi familiari nel wagneriano La caduta degli dei (1968), su ascesa e dissoluzione di una potente dinastia di industriali negli anni del nazismo. I personaggi, cerei in volto e devastati nell’anima, ci appaiono come fantasmi afflitti da una nibelungica maledizione.

I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio racconta il ‘cupio dissolvi’ dell’odiata famiglia borghese targata anni Sessanta, ma senza lo spessore letterario di Visconti. Qui un figlio epilettico e ribelle uccide la madre cieca e un fratello deficiente. Colpito da uno dei suoi raptus, viene a sua volta lasciato morire dalla sorella.

Vittorio De Sica adatta per lo schermo il popolare romanzo di Giorgio Bassani Il giardino dei Finzi Contini (1970) dove un parco protetto, animato dai rampolli di una altolocata famiglia ebrea ferrarese che si divertono in bicicletta e giocano a tennis, è metafora di isolamento rispetto a un contesto politico in procinto di emanare le leggi razziali.

Pietra miliare del cinema italiano è L’albero degli zoccoli (1974) di Ermanno Olmi, mesta storia di quattro famiglie che vivono in un grande cascinale della bassa bergamasca. Il pargoletto che deve fare chilometri per raggiungere la scuola, un giorno torna a casa con uno zoccolo rotto. Non avendo i soldi, il padre taglia di nascosto un pioppo del podere per ricavarne un nuovo paio. Ma c’è chi fa la spia, il padrone viene a saperlo ed è subito punizione: la famiglia, cacciata, si allontana dopo aver riempito il carro di povere masserizie (un calvario sottolineato da suggestive musiche per organo di Bach). Gli altri abitanti, da dietro le finestre, assistono impotenti a quella dolente ma composta partenza. Una grande rappresentazione della cultura contadina di fine Ottocento tutta chiusa in un microcosmo dove la vita è sottolineata dallo scorrere delle stagioni, dalla fatica nei campi, dal filò in stalla, dal conforto nella preghiera, dalla cristiana rassegnazione.

La famiglia (1986), titolo che più banale non si può, è il pretesto di Ettore Scola per raccontarci in maniera didascalica ma disincantata le principali vicende italiane dal primo Novecento agli anni Ottanta. Parallelamente alla routine di una buona famiglia romana del quartiere Prati (immortalata anche nell’album delle fotografie), fuori casa passa la Storia con la S maiuscola: le due guerre, il fascismo, il boom, la contestazione...

Un tuffo solenne nel cinema classico è il regalo che Marco Tullio Giordana ci fa col suo chilometrico e di ampio respiro La meglio gioventù (2003), che del film di Scola sembra un sequel. Racconta infatti l’ultimo scorcio di storia patria: gli anni della contestazione, del terrorismo, della strage di Capaci fino a Tangentopoli scandita dai turbamenti pubblici e privati di una tipica famiglia italiana. Un affresco suggestivo e toccante che tende a tenere onestamente fuori della porta gli eccessi ideologici. I personaggi attraversano il tempo ora da protagonisti ora da osservatori, ma sempre col coraggio e il sogno di un mondo migliore. Le generazioni che oggi hanno i capelli bianchi si sono rispecchiate in questo romanzo-fiume e si sono commosse.

 

Spaccati di vita familiare dall'estero

In Family Life (1971) di Ken Loach, maestro del cinema operaio inglese, una donna oppressa dal bigottismo del parentado, è costretta ad abortire per salvare l’onore: si ribella ma la sua ribellione si trasforma in follia e finisce in un ospedale psichiatrico. Un film che ci ammonisce su come la vocazione al perbenismo di una vita apparentemente ordinaria possa portare alla schizofrenia. Ancora più impietoso il ritratto che in Ladybird Ladybird (1994) lo stesso Loach fa di una moglie vessata dai vari uomini che ha avuto. La situazione di totale degrado in cui vive la donna finisce nel mirino della cieca burocrazia dei servizi sociali: ritenuta madre irresponsabile, le vengono sottratti i figli.

Assai più tranquilli e adatti alle signore perbene che prediligono la narrativa rosa sono Kramer contro Kramer (1979) di Robert Benton, storia di una separazione che approda in tribunale, e Voglia di tenerezza (1983), dove il regista James L. Brooks si lascia prendere la mano da espedienti strappalacrime: dissapori tra madre e figlia, l’incontro con un fascinoso sfaccendato, l’imprevisto male incurabile.

Nel 1980 Robert Redford affronta la sua prima regìa con Gente Comune, in cui la routine di una famiglia dell’Illinois è stravolta per l’annegamento di uno dei due figli, mentre l’altro si arrovella ritenendosi colpevole. Il film è un po’ appesantito dalle velleità psicanalitiche di un Redford che peraltro non compare nel film.

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Fanny e Alexander (1982), di Ingmar Bergman [foto: quinlan]

Fanny e Alexander (1982), di Ingmar Bergman, è una saga familiare svedese di chiaro impianto teatrale divisa in capitoli che si svolge ai primi del Novecento. Scene da un matrimonio, insomma, su cui aleggia la repressione puritana. Bergman si diverte a fare sfoggio della sua versatilità alternando momenti drammatici a toni da commedia.

L’onore dei Prizzi (1985) di John Huston, unitamente al trittico coppoliano del Padrino, si inquadra nel filone 'mafioso' in cui le famiglie sono veri e propri clan che incarnano un potere cinico, istintivo, corrotto, senza scrupoli.

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[sarà pubblicata il 31 maggio 2019]

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