Gli animali

Entrare dentro il maiale

La via appercettivo-estetica per restituire il senso agli animali

di Egidio Missarelli

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Brema, Germania

In queste brevi riflessioni cercherò di dar corso a un’intuizione che C. G. Jung esprime in un suo libro: «… Noi abbiamo un’idea completamente sbagliata dell’animale; non dobbiamo giudicare dal di fuori. Dal di fuori si vede un maiale coperto di fango che si voltola nella sporcizia… quel maiale visto dal di fuori… è sozzo… per te sarebbe sozzo, ma non lo è per il maiale. Quello che dobbiamo fare è entrare dentro il maiale»[1].

A mio giudizio, questa osservazione, dal punto di vista euristico, significa rendere giustizia a tutti gli animali, alla ricchezza del loro essere, e permette di uscire da una mentalità riduzionistica, dominatrice e psicologicamente compensatoria di cui siamo tutti figli incoscienti. Quale fantasia di colori e ‘canzoni’, comportamenti aggraziati o goffi, sentimenti di fedeltà o egocentrici, occhi espressivi o spenti eccetera, presenta il mondo animale: una vera e propria ‘ostensione’ estetica! Quanto ancora abbiamo da imparare dagli animali adottando questa prospettiva immaginativa! Prospettiva, tra l’altro, fonte delle antiche sapienze teriomorfiche[2]. Sapienze, temo, ormai destinate solo a riempire scaffali di biblioteche.

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Galeno di Pergamo (129 – 201) è stato un medico greco antico

Dunque: entrare dentro il maiale! Da Galeno fino a tutto il medioevo gli anatomisti hanno sviluppato i loro studi sui cadaveri dei maiali, proprio in virtù del fatto che lo stomaco, i polmoni e le viscere in genere sono simili ai rispettivi umani. E poi l’aspetto roseo, il tronco, le mammelle, il modo di accoppiarsi, l’essere onnivoro, e il fatto che il sapore delle sue carni si dice sia lo stesso di quello delle carni umane. In italiano, come in molte altre lingue, appellare una persona con i termini maiale, porco, troia, proprio in virtù del suo aspetto carnoso e delle sue abitudini, significa considerarla sporca, rude, ostinata, sporcacciona, grassa, ghiotta, avara e via di seguito. Un altro aspetto messo in luce nel Medioevo è stato quello di considerare il maiale simbolo di indolenza, di oziosità. Inoltre, i suoi liquidi, latte, sangue, lardo e urina, venivano usati terapeuticamente, soprattutto per ridar tono alla pelle secca e ai seni raggrinziti e curare la tosse. Ricordiamo anche l’ostinazione maialesca, la cosiddetta pigheadedness, che è un’esasperazione della semplice ostinazione egocentrica umana.

Valutiamo ora brevemente quanto nel corso della storia l’odio per i suini abbia una radice profonda, a cominciare dall’oniromante Artemidoro che riteneva la carne di maiale simbolo di buon auspicio, perché da vivo, contrariamente agli altri animali, il maiale non serve a niente mentre dal suo corpo si ricava una notevole quantità di cibo. L’odio è presente anche nel dogma del Levitico (11,7) e in tutti i paesi islamici fino all’Europa, dove il diavolo compariva spesso nelle sembianze di un maiale e le streghe lo cavalcavano. E cosa dire a proposito del racconto evangelico[3] dove vien detto che Gesù faceva entrare i diavoli nel corpo dei maiali! In virtù di ciò nel medioevo i suini prima di essere macellati venivano ispezionati dall’esorcista.

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1457, Lavigny (VD, Svizzera): scrofa condannata a morte per aver mangiato un bambino (foto: via histoiredelafolie, 1864)

Seguendo Kerényi[4] abbiamo però la possibilità di considerare il maiale – non solo lui ma anche molti altri animali – come psicopompo, nella versione greco-antica del mistero infero della carne afferente la catabasi plutonica. I maiali di Demetra e Persefone che muoiono nei misteri minori, sono gli iniziati stessi, e quindi la vista di maiali nei misteri promuoveva devozione, non repulsione, perché riconoscere la divinità nei bisogni maialeschi consente al maiale – quella parte animale nell’uomo che, secondo Franco Battiato, «si prende tutto anche il caffè»[5] – di rinunciare alle sue pretese.

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Lampada ad olio alimentata da grasso animale

Un’iniziazione alle sottigliezze di ciò che è grossolano, e cioè far sprigionare luce e calore spirituale dalla natura inferiore, dal grasso. La metafora si basa su un processo fisico che l’uomo, a partire da cinquemila anni prima di Cristo fino alla scoperta dell’elettricità, ha sfruttato: sappiamo che i grassi  animali, insieme a quelli vegetali, hanno costituito il combustibile delle lampade a olio.

Il mondo animale come proiezione esterna per maturare una coscienza riflessiva, come le immagini sulle pareti delle grotte del paleolitico raccontate da Clayton Eshleman, a guisa di varie parti di noi espulse dalla natura adamitica[6], ognuna con la propria specializzazione[7]. Punti di vista per «leggere l’animale, sentirlo parlare», per uscire da «semplici moralismi allegorici» e dal «nostro desiderio ermeneutico»[8], e così finalmente approdare a una nuova scienza del vivente.

 

[1] Jung, Visioni. Appunti del Seminario tenutosi negli anni 1939-1934, Edizioni Magi, Roma, 2004.

[2] Henry Frankfort, La religione dell’antico Egitto, Boringhieri, 1991: “… Dobbiamo quindi presumere che l’egizio interpretasse il non-umano come sovra-umano, in particolare quando lo vedeva negli animali: nella loro saggezza non verbale, nella loro certezza, nelle loro imprese risolute, e soprattutto nella loro realtà statica”.

[3] Marco 5,12.

[4] Kerényi, Eleusis. Archetipal image of Mother and Daughter, 1967.

[5] https://youtu.be/DBHlXwwDnVU

[6] Il naturalista Grant Watson in Animal splendor scrisse: “Sì, gli animali ce li siamo scrollati di dosso e li abbiamo cacciati via”.

[7] “La zoologia interiorizzata diviene fisiologia – la fisiologia esteriorizzata diviene zoologia”: frase del medico Hélan Jaworski riportata nel libro di J. M. G. Twentyman, The organic vision of Hélan Jaworski.

[8] James Hillman, Presenze animali.

 

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